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Sindaca? Assessora? Legittimo non volerlo scrivere, ma spiegazione sbagliata. È solo una visione tradizionalista

Risposta articolata e motivata al nostro editoriale. Rispettiamo tutte le opinioni, soprattutto quelle diverse dalla nostre. Il bello del sano confronto è proprio questo

di Rosario Carbone

Ritengo il confronto costruttivo un ottimo esercizio di pensiero e di democrazia, mi permetto di controbattere in modo un po’ più articolato alle posizioni dell’editoriale, naturalmente con il massimo rispetto e la stima per il direttore Maurizio Bonanno, ottimo giornalista del nostro territorio, che apprezzo pur nella diversità di vedute.

L’editoriale rivendica la volontà di non utilizzare femminili di mestiere, come “assessora” , “sindaca” et similia. Tale rivendicazione è senz’altro legittima (ognuno è libero di scegliere che parole usare), tuttavia ciò che ritengo del tutto sbagliato è la giustificazione che si cerca di dare a sostegno di questa scelta.

1) Nella definizione dell’argomento si parla di tendenze “cacofoniche”, termine che io avevo usato in modo ironico e virgolettato e che invece l’editoriale usa convintamente. E allora definiamo il termine “cacofonia”, che secondo Treccani, è “impressione spiacevole all’orecchio prodotta dall’incontro o dalla vicinanza di certi suoni e spec. dalla ripetizione di sillabe uguali”. Possiamo quindi davvero considerare “cacofoniche” parole come “sindaca” o “assessora”? E se così fosse, perché non ci sembrano allo stesso modo cacofoniche parole come “impiegata” o “cameriera”? Perché non ci sembrano cacofoniche parole dal suono più aspro come “scricchiolìo”, “transustanziazione” o “spinterogeno”? In realtà, io credo, quella che erroneamente viene scambiata per cacofonia non è altro che la non abitudine a sentire queste parole declinate al femminile. Ciò avviene perché, guarda caso, si tratta quasi esclusivamente di mestieri che in passato erano pressoché preclusi alle donne (sindaco, magistrato, ministro, assessore, avvocato, architetto ecc.) e quindi continuare a usare il maschile significa fare un uso maschilista della lingua, cioè usare una lingua che rispecchia una società maschilista.

2) Mi ha molto colpito una frase dell’articolo: “La lingua ed il rispetto della lingua è cosa seria, per noi è cosa seria”. Ebbene, scegliere di non fare un uso sessista della lingua è forse poco serio? Scegliere di declinare correttamente dei nomi al femminile è poco serio? Perché qui c’è un grosso equivoco. Si lascia passare l’idea che queste proposte vadano contro la lingua, quando in realtà non fanno altro che seguire regole di morfologia ampiamente ammesse e del tutto normali in nomi che hanno la stessa identica struttura: “sindaco” e “impiegato” non presentano alcuna differenza a livello del loro comportamento morfologico, eppure vengono trattati diversamente. Io penso invece di trattare seriamente la lingua perché la rispetto e la uso come deve essere utilizzata. Lo ribadisco: una lingua è specchio della società che la parla.

3) In più punti dell’editoriale si accusano queste tendenze di voler solo essere “politicamente corrette” e modaiole. Ebbene, è vero che nella lingua ci sono tante mode che cambiano nel tempo come l’abbigliamento o il taglio di capelli (pensiamo a parole oggi abusate come “resilienza” o ai vezzi linguistici più disparati sfruttati comicamente da molti personaggi di Carlo Verdone); tuttavia in questa questione, lo sottolineo, non c’entra assolutamente nulla né la moda né il politicamente corretto. Si rivendica semplicemente un uso corretto della lingua, la necessità di riferirci alle donne con il femminile e agli uomini con il maschile (come avviene per tutti gli altri nomi di mestiere: netturbino/netturbina, segretario/segretaria, gelataio/gelataia, commesso/commessa, ecc. ecc.).Dire che si tratta solo di voler essere politicamente corretti significa non voler prendere in seria considerazione la questione, eluderla, semplificarla non volendo dare ascolto, per partito preso, a tutte le serie ragioni linguistiche a sostegno. Significa, in ultima analisi, non voler entrare nel merito e nel tecnico.

4) Per entrare nel merito e nel tecnico bisogna avere le competenze per farlo. Tutte le posizioni espresse nel mio post oltre a essere argomentate (pur semplificando molto per ragioni di spazio) sono sostenute da quasi tutti i linguisti di oggi. Quindi affermare che scegliere di usare questi nomi declinati al femminile sia “un’offesa alla lingua” e un “inno all’ignorante” è decisamente assurdo e scorretto (oltre che poco elegante).

5) Nell’articolo, a un certo punto, si riporta alla lettera quanto io scrivo a proposito dei nomi maschili terminati in -A (camionista, astronauta, omicida, geometra), desinenza giustificata dall’etimologia e che, pur trattandosi di una -A, è comunque maschile.

Questa mia spiegazione, però, viene maldestramente usata per giustificare, al paragrafo successivo, l’uso della desinenza -O anche per il femminile. Peccato però che in questo secondo caso le ragioni etimologiche vengano meno e allora si sfrutti un’argomentazione già nota e ampiamente contestata, nonché inefficace e pseudo linguistica: “sindaco”, “assessore”, “ministro”, secondo l’autore dell’articolo, dovrebbero restare così perché si riferirebbero alla “funzione”. Esempio calzante sarebbe la parola “maestro”… Peccato che il femminile “maestra” sia ampiamente diffuso in italiano, esiste, e se non lo si usa è solo perché non lo si vuole usare.

E poi, scusate, non è forse una “funzione” anche quella della cameriera, della consigliera, della deputata, della professoressa, della fioraia, ecc. Tutti i mestieri e tutti gli incarichi sono delle “funzioni”, tutti noi svolgiamo una funzione.

Dunque, secondo questo principio andrebbero eliminati tutti i femminili che indicano una funzione. Mi pare piuttosto evidente che questa idea non regga e non abbia alcun fondamento linguistico.

In conclusione, chi scrive questo articolo è certamente tradizionalista e conservatore (senza alcuna sfumatura negativa per i due termini) ed è ovviamente liberissimo di continuare a usare le forme maschili. È una sua scelta personale e non gli daremo certo dell’ignorante. Ma sappia che non esistono motivazioni linguistiche serie a sostegno di questa tesi. Quindi che si rimanga pure tradizionalisti, ma senza provare ad arrampicarsi sugli specchi.

Io da parte mia continuo a pensare che le nostre parole rispecchino il nostro modo di pensare, per questo continuerò a battermi per un uso consapevole e responsabile della lingua, in un’ottica inclusiva e nel rispetto di tutti.

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