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Sì. Perché crediamo nella magistratura. Perché vogliamo “giudici con l’anima”.

si

Riflessioni ad alta voce sul perché andare a votare questi referendum non è andare contro la magistratura

di Maurizio Bonanno

Sì. Sì. Sì. Sì. Sì.

Perché andare a votare questi referendum non è andare contro la magistratura. È un appello per avere una giustizia davvero giusta, efficiente, rapida, severa con chi ha commesso dei reati, ma attenta a non incolpare chi non ne ha commessi. Perché questa è una condizione essenziale per vivere in un Paese che si dica civile e democratico.

Perché negli ultimi decenni sono stati alterati i rapporti tra i poteri. E la bilancia simbolo di giustizia non è in equilibrio.

Perché la paralisi dell’impianto giudiziario è intollerabile. Perché tutto questo è responsabilità anche della magistratura, come della politica, che, priva di coraggio, ha rinviato sine die la riforma e solo adesso ci prova con la Cartabia, frutto di un difficile compromesso che la rende monca, incompleta. Ed allora sì: c’è bisogno di una scossa.

Sì. Sì. Sì. Sì. Sì.

Certo che sì, quando penso alla legge Severino, una norma che provoca perniciose alterazioni della democrazia espressa dalla volontà popolare; oppure rifletto sulla separazione delle funzioni tra i magistrati, perché a chi indaga dovrebbe essere impedito persino di prendere un caffè con chi è chiamato a giudicare.

Certo che sì, quando vedo proposte e metodi che vanno a scimmiottare culture giuridiche lontane dalla nostra storia. Quando vengono proposte visioni che appartengono ad altre civiltà, non radicate da millenni di pratica e teorie: non più la filosofia del diritto che attinge dai miti greci, non più il diritto romano modello di riferimento ineguagliabile nei secoli.

La giustizia non è applicazione meccanica, fredda trasposizione attraverso norme statiche. Non qui, non tra noi, che siamo culla del Diritto da millenni. Non è tecnicismo, applicazione meccanica. Possiamo pure ignorare gli studi classici; considerare i miti vecchiume spedito in soffitta dagli algoritmi; reputare dèi ed eroi della Grecia una ridondanza. Possiamo pure negare le radici profonde che sono alla base della nostra civiltà. Ci annulleremo accettando di diventare copie sbiadite di altre civiltà che invece hanno un conto aperto di riconoscenza verso chi ha generato il mondo occidentale, la civiltà occidentale. Rinneghiamo ciò che siamo in nome di una falsa modernità tecnicistica, che, senza basi e senza radici, è destinata al crollo.

I miti greci non sono morti, non sono favole. A dispetto di chi predica il disfacimento della civiltà nostra, sono ben presenti nella nostra coscienza, si annidano in essa come archetipi sempiterni, strutturano la nostra mente senza che noi ce ne accorgiamo. La conoscenza dei miti, soprattutto di quelli greci, eleva l’essere umano ad una superiore consapevolezza, produce civiltà e rende tutti migliori. Aiuta a comprendere la cruciale differenza, oltre le tattiche politiche, tra i diversi modi di concepire la legge benché il suo seme, come ricorda Platone nel Protagora, sia piantato dagli dèi nell’anima di tutti.

Rifarsi al summum ius, summa iniuria, è non dimenticare l’inevitabilità della “imperfezione” che si nasconde in ogni gesto umano – e dunque anche nell’azione del magistrato, che resta un essere umano! – che salvaguarda la presunzione d’innocenza, che è principio di quegli Stati moderni i cui scaffali sono arricchiti da certi “vecchi” libri letti (e digeriti nella pratica). Perché il senso di giustizia e la sua pratica nella civiltà occidentale ed europea convivono con un’ombra sempre proiettata dinanzi a sé: l’ombra di Clitemnestra – in quel presente perenne, che è il tempo del mito – fra i mesti luoghi dei crimini e le aule austere dei palazzi di giustizia. Clitemnestra, cui il re marito Agamennone sottrae la figlia Ifigenia e la sacrifica agli dèi per non rinunciare al comando della flotta greca; Clitemnestra che quando il coniuge ritorna lo uccide per punirne il crimine dopo una lunga attesa; Clitemnestra vittima a sua volta del figlio Oreste il quale vendica, per ordine di Apollo, l’assassinio di suo padre.

Ereditata dalla scena greca, Clitemnestra è un’ombra ingombrante che da allora continua a catturare l’arte dei tragici e la riflessione di giuristi, filosofi, poeti, scrittori. Perché da allora molte Clitemnestra nei secoli continuano a cavalcare le vie del mondo con i suoi incubi.

In Eschilo, Clitemnestra è una figura emblematica del dolore e della solitudine, che non si risolve nel cliché semplificato dell’uxoricida, perché il suo rapporto con Agamennone racchiude il problema universale della reazione all’ingiustizia subita e del modo in cui si concretizza. Clitemnestra è l’archetipo dell’insanabile dolore per l’uccisione della figlia Ifigenia, che la spinge a diventare a sua volta un’assassina per vendicare il delitto. La regina achea è corrosa dal desiderio di vendetta: se nulla può risarcire quel lutto, a lama non può che rispondere lama. E così, non appena Agamennone torna, lei corrisponde inganno a inganno, morte a morte.

La metafora, passando dalla persona allo Stato, dalla vendetta personale a quella collettiva, si modella sulla scelta tra la barbarie di una società giustizialista e la nostra – consolidata nei secoli – civiltà giuridica, a dispetto del fatto che sono ancora tanti i Paesi che applicano la pena di morte o comunque considerano il carcere l’applicazione vendicativa a riparazione di chi ha subito il reato, piuttosto che luogo di espiazione e di recupero sociale del reo.

È questo il mondo che vogliamo? La giustizia praticata come vendetta?

La nostra storia, la nostra cultura è altra. È stata per millenni altra. Modello di civiltà dalle radici profonde che non possono essere recise da una smania giustizialista e vendicatrice.

Per dirla con Calamandrei, noi vogliamo “giudici con l’anima”, cioè capaci di scandagliare il marasma delle intenzioni umane, giudici in grado di digerire la “durissima materia”, prima di emettere una sentenza. L’alternativa è l’incubo giustizialista, quello che oscilla dal fine pena mai al fine processo mai.

“Chi vuole il processo infinito – commentava tempo fa Luciano Violante, che è stato magistrato e politico – ha in testa un modello di Stato che celebra perennemente la sua sfolgorante sovranità nei confronti dell’imputato. Ma sarebbe un ritorno allo Stato premoderno. Lo Stato democratico, al contrario, tenta di agevolare la ricucitura, di ricomporre lo strappo. E se non riesce a soddisfare la sua pretesa punitiva deve interrogarsi sulle ragioni per cui non ce l’ha fatta. La giustizia non può subire la coercizione di una gabbia ideologica. Bisogna stabilire se il processo penale è semplicemente il luogo dove lo Stato sovrano condanna e assolve o piuttosto la sede in cui cerca di stabilire le condizioni per una riconciliazione tra il singolo e la comunità”.

È una questione che già risolve lo stesso Eschilo.

Fino a quel momento, la cultura greca arcaica non conosceva il concetto di perdono, ma solo quello di purificazione e di espiazione. L’Orestea, con le stragi e il sangue sparso, rappresenta, invece, il passaggio da una giustizia tribale e familiare a una giustizia di Stato fatta di tribunali, città e divinità cittadine. Il desiderio di vendetta attenua momentaneamente il dolore, ma genera poi, inevitabilmente, altra violenza. Dal dilemma della contaminazione non si esce con le leggi della vendetta tribale: solo il diritto e la legge possono regolare i contrasti, includendo gli aspetti razionali ed emotivi dell’uomo.

La cosiddetta giustizia riparativa ha il suo embrione antico fra i classici, già contemplando i meccanismi di riconciliazione, ma anche l’estensione dei riti abbreviati, l’improcedibilità per i processi troppo lenti, la maggior tutela civile e amministrativa degli indagati, il ridimensionamento dell’udienza preliminare.

Sì. Sì. Sì. Sì. Sì. Perché sono figlio di questa civiltà, erede di questa cultura. Orgoglioso di esserlo. Convinto che la civiltà da imitare (ed esportare) è la nostra.

Sì.

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