Ciò che un uomo può essere, deve essere. Deve essere fedele alla propria natura. Ma il giornalista è un lavoratore?
di Maurizio Bonanno
Buon 1° maggio ai lavoratori. Buon 1° maggio anche a chi lavora ma…
Che senso ha celebrare oggi il 1° maggio? Limitarsi allo sterile rituale del raduno sindacalista, dell’evocare la strage di Portella della Ginestra, del ricordare le battaglie per il lavoro e contro le ingiustizie sociali?
Chi non lavora, o lavora in condizioni proibitive, non vive un’esistenza decente. Tutto questo appare relativo preferendo spesso dimenticarlo, mentre si continua a non investire abbastanza sull’istruzione e sul lavoro qualificato.
“Il lavoro è alla base di una molteplicità di cose: consente la sussistenza primaria, permette decenti condizioni di vita, soddisfa il desiderio di acquistare beni voluttuari, o di concedersi piaceri vari e svaghi… Perché no, il denaro permette anche di pagare le tasse, per avere intorno a sé un sistema di protezione sociale che si interessa dei cittadini e che li soccorre nei momenti di difficoltà, migliorando la qualità della loro vita”.
La definizione è di Erich Fromm. Secondo il sociologo tedesco, “l’evoluzione umana deve considerarsi fondata sul lavoro, in quanto forza liberatrice, emancipatrice, di incentivo allo sviluppo. Il successo nel lavoro consente infatti uno stato di grazia e sancisce la propria appartenenza alla schiera degli “eletti”.
Dunque, è il lavoro che permette di diventare chi siamo, che contribuisce a migliorare la vita di ciascuno e, quando il lavoro che svolgiamo ci piace, il che accade molto più frequentemente di quanto non si pensi, esso diventa anche una delle componenti più importanti della nostra felicità.
Lo psicologo umanista Abraham Maslow, a tal proposito diceva: “Un musicista deve fare musica, un artista deve dipingere, un poeta deve scrivere, se vuole essere in pace con se stesso. Ciò che un uomo può essere, deve essere. Deve essere fedele alla propria natura. Questa necessità si può chiamare l’auto-realizzazione”. E passa attraverso quello che definiamo l’apprezzamento sociale, perché è in gran parte attraverso di esso che la persona costruisce la propria autostima. Altrimenti accade, come accade, che se non si tenesse conto del giudizio degli altri, ma solo delle proprie autovalutazioni, saremmo di fronte ad una sorta di delirio, pronti ad autoproclamarci titolari di una qualifica senza sapere come si arriva ad acquisirla realmente (avete idea di quanti si autoproclamano artisti, manager, direttori artistici… giornalisti!).
Ed è a questo punto che sbocciano i paradossi.
La giusta sacrosanta rivendicazione di un riconoscimento del lavoro e della equa retribuzione sta producendo il legittimo effetto di chi va fuggendo dalle occupazioni mal pagate o sottopagate preferendo fare altro, o anche nulla. Il commercio, la ristorazione e il turismo, raccontano le cronache, sono in seria difficoltà: impossibile trovare camerieri o gente disposta a lavorare fino a tarda sera o nei festivi, se non in cambio di compensi che, sempre giusto o sbagliato che sia, sono ritenuti dai datori di lavoro eccessivi o non sostenibili.
Eppure, malgrado queste considerazioni inziali, c’è un’isola felice della quale – incredibile! -nessun osservatore sembra voler tenere conto: il giornalismo.
A scrivere articoli anche per un pezzo di pane o perfino gratis sono disposti pressoché tutti. O comunque in un numero soverchiante rispetto a chi si rifiuta. Ci sono casi, nemmeno troppo rari, di gente che addirittura paga per lavorare come giornalista, nel senso che pur di scrivere si accolla spese che ammontano a tre, cinque, dieci, trenta volte il compenso riscosso. È il caso soprattutto dei servizi giornalistici per le tv private, soprattutto per le tv locali, che ormai vivono di questo “volontariato professionalizzato”. E il tutto per prestazioni che possono andare da qualche ora a qualche giorno di lavoro, senza orari, con disponibilità ventiquattrore su ventiquattro.
L’assurdo è che la concorrenza è spietata: la gente sgomita.
Si dirà: si tratta di giovani illusi, ragazzi che sognano il “mitico scoop” …macché! Ci sono ultra cinquanta-quarantenni assatanati che contendono ai diciottenni alle prime armi le fatidiche trenta righe a tre euro e pure meno.
Insomma, da un lato si rifiuta legittimamente di fare il cameriere o la commessa per dieci ore al giorno a cifre che vanno dagli 800 ai 1.300 euro mensili, ma poi si lotta senza quartiere per offrire gratuitamente il proprio lavoro – fisico e intellettuale, perché a fare il giornalista c’è da sgobbare anche fisicamente dovendo “andare sul posto” quando serve – a un editore.
E nessuno che abbia nulla da dire, che ci trovi nulla di strano. Come se l’informazione non fosse più un lavoro, ma un’attività riservata a chi lo fa per hobby visto che ormai, con un telefonino in mano ed un post sui social tutti possiamo potenzialmente essere dei cronisti.
Per l’essere umano il lavoro è un istinto, una pulsione, un bisogno, quasi come il mangiare, il bere, il fare l’amore. Vivendo in gruppo, ciascuno è portato ad esercitare le proprie capacità, le proprie competenze, al fine di raggiungere qualcosa di apprezzabile, a livello personale, ma soprattutto sociale. E volete mettere l’apprezzamento sociale per chi fa il giornalista… è una soddisfazione che non ha prezzo; appunto!
Buon 1° maggio ai lavoratori. Buon 1° anche a chi il lavoro lo fa… per hobby!