Un intenso invito ad una profonda e complessa riflessione che, come redazione, abbiamo ritenuto opportuno dividere in due parti
di Rosario Rito*
Anche s’è di una naturale infinità che sin dal primo momento che usciamo dal ventre materno, ognuno è proiettato verso il futuro per raggiungere la realizzazione del proprio essere persona attraverso lo studio, il lavoro e quant’altro, va anche detto che la nostra esistenza o vita quotidiana, è composta da momenti sovrapposti e contraddittori tra loro, i quali creano nel nostro essere – Anima -, dolori o gioie, sofferenze e speranze, insicurezze e piccole certezze. Oltretutto, se è vero che ogni cosa come ha un inizio ha una fine o può svanire improvvisamente, sia con o senza una ragione plausibile, cos’è il futuro? Esiste veramente o è una parola che serve esclusivamente a sostituire il termine speranza?
Domani vado al cinema; da grande voglio fare il medico; fra tredici mesi e mezzo mi sposo e ci saranno 200 invitati … e molte altre aspirazioni ancora. Ecco, il nostro Vivere, sta nell’avere le idee chiare su cosa fare o realizzare. Ciò serve per il nostro benessere e per eguagliarci agli altri; e questo stato di fatto non è che si ha solo nel momento in cui abbiamo un’idea chiara di ciò che desideriamo concretizzare nella vita, ma per tutto l’arco della nostra esistenza e con nessun vincolo d’età. Basta tener vivo l’intelletto e la voglia di voler raggiungere senza abbandonarsi mai a se stessi, perché se pur vero è che molte volte si perde l’entusiasmo di fare e di desiderare, in fondo al nostro animo vi è sempre un desiderio o un qualcosa da soddisfare o d’adempiere per raggiungimento del nostro benessere.

Detto così, il discorso non fa una piega, ma vi è anche da dire che se è pur vero che indietro non si può ritornare perché la nostra esistenza è solo a senso unico, più veritiero è che, nonostante siamo proiettati sempre in avanti, il futuro non lo possiamo determinare noi. O meglio: esistiamo solo noi, con i nostri progetti e programmi che cerchiamo di realizzare e portare a termine con la nostra forza di volontà e determinazione, senza pensare mai che tutto potrà finire o essere perso nel nulla. Ciò che ci fa più male e a volte ci distrugge emotivamente, sta nel non mettere mai in conto e tenere presente che, come ogni cosa nasce anche muore. Così allo stesso modo, ciò che costruiamo o creiamo può essere anche perso, perché può esserci rubato e non soltanto dagli altri, ma in modo atroce da una crudele sorte o da una fatalità inaspettata.
Il motivo è certamente questo nostro non mettere in conto che, come noi siamo che mortali, tutto può finire: ad esempio un grande amore, una grande amicizia, una gioia e una speranza; un giorno triste come uno sereno o un matrimonio che può finire per svariati motivi o incomprensioni reciproche. Oltretutto, credo che come nell’amore, anche nella perdita di una vera amicizia vi è una sofferenza grande, dato che le due cose, come ci aiutano e guidano verso il rafforzamento del credere in noi stessi, altrettanto donano la gioia di essere e soprattutto sentirsi, non importanti, ma addirittura, vitali per qualcuno.
Solo con chi ci ama o ci è amico veramente, oltre al coraggio di parlare per raccontarci le nostre paure, addossandoci vicendevolmente delusioni, sofferenze, segreti intimi e profondi, troviamo anche e soprattutto la libertà di sfogarci, piangere senza vergogna; giacché sicuramente non saremo giudicati e tanto meno visti come dei piagnistei.
Il ciò non toglie, però, che come singoli si nasce e soli si soffre: e non perché gli altri facciano fatica a comprenderci o i veri e autentici amici improvvisamente diventano indifferenti, ma per il fatto che come si ha un corpo, si possiede un’anima, in egual misura, com’è unico e originale il nostro sentire, nessuno potrà assimilare e comprendere in modo autentico ciò che l’altro prova o in animo suo patisce. Anche se si è simili, ognuno è un ineguagliabile da un qualunque altro “Sé”. Tutto si può uguagliare, tranne il sentire della propria anima, da cui viene fuori la cosiddetta ‘Reazione emotiva’.
“La tragedia della vita è ciò che muore dentro ogni uomo col passar dei giorni”, diceva Albert Einstein, soprattutto nel momento in cui ciò che la vita ti dona, qualcuno o qualcosa al di sopra di essa ci porta via senza compassione o pietà.
Sicuramente per gli intellettuali o filosofi e, con maggior particolarità, i cristiani, giudicheranno questo mio pensiero come uno dei peggiori sentimenti pessimistici e nichilistici, ma dato che la vita di ogni persona è animata da una individuale emotività, se da un lato si sviluppa con l’appagamento dei suoi bisogni, dall’altro si deteriora e si deprime attraverso i drammi e le sofferenze del proprio esistere. Il dramma del saper valutare o distinguere il giusto dall’errato, oppure il radicale dal razionale, sta nella radicalizzazione del proprio sentire, anziché dal possedere la capacità di saper trovare un equilibrio che sia accettabile e condivisibile da tutti, soprattutto nel momento in cui tutto appare senza Dio o collegato a un Dio senza potenza.
Radicalità nel senso che, come si è singoli, si appartiene a un se stesso che sta in quella propria peculiarità del proprio sentire e provare emozioni e sensazioni le quali, se da un lato sono nutrimento del proprio animo, dall’altro provocano lo svuotamento del proprio credere. Perciò credo che non sia per nulla facile l’accettazione di eventi semplicemente negativi, ma atrocemente drammatici, soprattutto nel momento in cui, anche per un plausibile motivo, si fa fatica a capire se fu la sorte o un crudele fato a potarti via ciò che la vita ti aveva donato sotto forma di compenso per quel che la natura o le circostanze avverse ti avevano negato.
Sì, è vero, e ne sono concreto testimone. Se a ognuno di noi la natura ha tolto o negato qualcosa, nonostante le sue ambiguità, contraddizioni e avversità, la vita è sempre pronta a ricompensarci con sorprese che oltre a lasciarci senza fiato, ha tutte le sembianze che sembrano volere o desiderare di chiederci scusa per come s’è presentata a noi e al nostro divenire, anche se, come già detto, l’adempimento del proprio destino dipende esclusivamente dalla volontà e dalla forza di crederci, poiché se è pur vero che la cosa più importante per qualsiasi persona è il raggiungimento della propria realizzazione nello studio, nel lavoro e nel crearsi una famiglia, ve n’è un’altra dal valore illimitato, insuperabile e imprescindibile: l’amicizia. Quella che nascendo per caso, cresce nella spontaneità che non sta nel progettarla ma nel credere in un qualcosa che né tu nè il tuo animo poteva pensare che fosse possibile.
Ecco cosa è il destino della natura umana: non solo portare a termine il proprio dovuto, ma ricevere sorprese anche inaspettate, che nel toglierti dalla solitudine materiale ed emotiva, ti consenta di vedere orizzonti che ti gratificano l’animo, facendoti sentire una persona nuova, oltre che ricompensata in tutto ciò che hai sempre creduto.
Si dice che col tempo tutto passi, che si affievoliscono anche i dolori più grandi e le atroci sofferenze. Sì, è vero che il tempo cura le ferite, ma solo le visibili sul corpo, che in gergo son chiamate ‘Cicatrici’. L’animo o lo spirito, invece, li abbandona a ognuno per se stesso!
Oltretutto se fosse vero che la fede in un Dio, possa aiutarci a spazzare via dalla nostra mente e da quel pozzo senza fondo che in gergo si chiama Anima, tutti i nostri ricordi, sofferenze, sensazioni, emozioni e gioie, non saremmo persone, bensì dei banali atomi in funzione di un qualcosa che per valorizzarsi avrebbe bisogno solo di una perfetta funzionalità oggettiva, anziché essere come siamo, fautori di una propria sensitività soggettiva.
Un qualcosa come, ad esempio, l’incontrare un qualcuno che oltre ad aver fiducia in te, attraverso il suo appoggio pratico, emotivo e spontaneo e fa di tutto affinché tu possa raggiungere gli obiettivi e i desideri che, anche con tutta la tua forza di volontà e determinazione, non avresti mai potuto portare a termine o realizzare.
Sì, irraggiungibili per te ma non per mancanza di volontà e determinazione, bensì perché la natura, il caso o la sorte non ti hanno fatto nascere con le stesse agilità motorie di una qualunque altra persona e, ciò che è peggio, sta che, oltre alla negazione nel muoverti liberamente, impedisce di esprimerti attraverso un linguaggio fluido e chiaro: ti ha abbandonato a te stesso con l’eterno enigma di non sapere se fosse stato meglio essere totalmente cerebroleso, piuttosto che cosciente di ciò che sei e dei desideri che hai e vorresti realizzare.
Detto questo, vorrei anche aggiungere che nonostante abbia avuto molte difficoltà, sofferenze e amarezze durante il mio cammin di vita e che, tutt’oggi non comprenda a pieno il senso puro dell’esistere, son sempre rimasto dall’idea o convinzione che non è stato il forcipe la principale causa della mia amara sorte. Tuttavia, anch’io ho i miei dubbi, soprattutto sull’esistenza della giustizia divina. Il forcipe è solo l’attrezzo che mi causò limitazioni motorie, linguistiche e anche nell’intelletto come dice o direbbe qualcuno, il resto appartiene a me e alle persone che mi hanno circondato con uguale colpevolezza e responsabilità.
Rispetto a quanto detto, col passar degli anni ho verificato in prima persona che non è per nulla vero che esiste l’autosufficienza in una persona e non solo dal punto di vista pratico, ma principalmente in quello sensoriale e spirituale. La natura a chi ha tolto la vista, a chi l’udito, a chi l’intelletto o la sensibilità e con ciò, come vi sono persone che non hanno la possibilità del camminare, esiste anche quella con poca umiltà e rispetto, non solo verso se stessa, ma principalmente e più responsabilmente nei confronti di un proprio prossimo.
(fine prima parte)
*Poeta, scrittore