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Scuola, cultura e nuovismi ricordando che cultura è movimento e se si ferma diviene folklore

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Le riflessioni di un dirigente scolastico

di Alberto Capria*

Che cos’è una cultura se non un patrimonio di conoscenze, valori e comportamenti, modelli di relazione? Come si produce cultura se non attraverso gli scambi, la motivazione allo studio, le contaminazioni, le esperienze? Essa è, per definizione, qualcosa in movimento.

            Una cultura che si ferma diviene folklore, interessante per organizzare raduni, manifestazioni e convegni, ma poco utile a preparare al domani le giovani generazioni. Mi chiedi cos’è la cultura, sentenziò Skinner: è ciò che rimane dopo avere dimenticato tutto quello che abbiamo pedissequamente appreso a scuola.

            I sistemi di istruzione oggi, dunque, devono modificare il proprio impianto ad obiettivi immutati: consentire alle persone e alle comunità di vivere insieme in un sistema fondato su reciproci diritti, riconosciuti a tutti, e doveri condivisi e dei quali ciascuno sia responsabile.

            Lungi dal possedere virtù magiche e dal costituire una sorta di panacea, le competenze rappresentano tuttavia una delle migliori soluzioni, al netto delle convinzioni (legittime ma a mio avviso errate) di Paola Mastrocola & co.

            La loro positività consiste nel permettere di dare un senso allo studio e di porre al centro del processo di apprendimento il soggetto che apprende e di marginalizzare “contenuti e programmi”.

            Per fare ciò, riprendendo Perrenoud e le sue 10 competenze per insegnare, la competenza necessaria nei sistemi di istruzione riguarda soprattutto gli insegnanti ed è quella di «organizzare ed animare situazioni d’apprendimento».

            L’idea stessa di situazione d’apprendimento non presenta alcun interesse per quelli che pensano che si va a scuola solo per imparare. L’insegnamento non è un automatismo: non si entra in una classe, si spiegano i contenuti sacri e immutabili del “programma” o dell’indice del libro di testo (altra sciocca reminiscenza Gentiliana) e pertanto si è insegnato.

            Se ci pensate bene un modello di insegnamento di questo tipo potrebbe essere sostituito – magari anche con risultati migliori –  dalle nuove tecnologie. Qualche bravo divulgatore davanti a qualche telecamera, gruppi di ragazzi (non più allievi o studenti) a seguire brillanti esposizioni. Quest’azione consentirebbe l’assimilazione di nozioni e contenuti semplici, appresi in modo acritico, spesso presto dimenticati. Attenzione, probabilmente avremo risultati migliori nelle anacronistiche prove Invalsi: e dopo cosa rimane? (e qui ritorna prepotentemente Skinner). Chiediamo questo a un sistema di istruzione?

            Per lungo tempo – e purtroppo in larga parte ancora oggi – l’azione di insegnare (teaching) e quella di apprendere (learning) sono state concepite come momenti separati e distinti, nei quali si distinguevano tre tempi:  il primo è l’esclusiva responsabilità dell’insegnante che consisteva (e ancora consiste) nel veicolare contenuti; responsabilità che si esaurisce nell’“aver spiegato” attraverso la lezione frontale.  Il secondo fa riferimento alla responsabilità degli alunni e consiste nell’ascoltare, prendere appunti (che questo bisogna fare anziché “giocare con i telefonini”, che diamine: ordine e disciplina!) studiare, ripetere. Poi c’è il terzo tempo – ma il Basket non c’entra nulla – che riguarda quanto avviene nella maggioranza delle classi italiane: la verifica!

            L’alunno si fa interrogare (sob!), l’insegnante soppesa il grado di preparazione (misura cioè il grado di somiglianza tra quanto ha spiegato e quanto gli viene ripetuto) e assegna un voto: dal prossimo anno anche alla primaria, perché… il nuovo avanza.

            Così non va, non funziona così, non oggi. E non saranno avanguardie educative, transizioni digitali ed ecologiche, agende sud o nord, cloud, stem ed altri ingorghi lessicali a cambiare le cose; nemmeno gli esperti statistici stipendiati da Invalsi; men che meno il Pnrr che, per la parte che riguarda l’Istruzione, è stato chiaramente predisposto da esperti sì, ma non di scuola!  

            Le modificazioni necessarie riguardano più piani: il piano dei contenuti e dei curricoli, quello delle pratiche didattiche e dell’organizzazione, della logistica e dei trasporti, della verifica e valutazione, dei termini e dei linguaggi,  dei mediatori e degli strumenti didattici e, last but not least, degli ambienti di apprendimento.

            Il tutto condensato nel piano delle finalità complessive o delle intenzioni serie, ricordandoci che – come diceva Rousseau – le buone intenzioni cominciano là dove finiscono le cattive azioni.

            E di cattive azioni negli ultimi 20 anni nell’universo scuola – volute o meno – ne sono state commesse tante, ma davvero tante: anche nell’anno da poco iniziato!

*Dirigente scolastico

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