Il rispetto di genere nasce da una consapevolezza culturale ed educativa, piuttosto che da formule dissimulatrici
di Maurizio Bonanno
Come volevasi dimostrare!
Inevitabilmente, il mio sfogo, il mio grido d’allarme contro la violenza che, a mio modestissimo avviso, subisce quotidianamente la lingua italiana, ha provocato reazioni le più disparate.
Molti consensi, altrettanto critiche (e meno male!). Qualche dotta rimostranza (c’è sempre da imparare), alcune condite da sana ironia (anch’io avevo provato a vestire di ironia il mio scritto, ma sembra non ci sia riuscito!), altre più spocchiose, da tipi “primo della classe” (vorrei esserlo, ma chissà…); altre ancora reazioni di parte, ovvero di chi crede che al mondo debbano sopravvivere solo i “politicamente corretti”; non sono mancate le offese gratuite (ma quelle rimbalzano come inevitabile che sia); e poi, le neofemministe di ultima generazione che ritengono che la rivoluzione di genere si possa e si debba fare via social e attraverso un’evoluzione linguistica che sia di genere.
Eppure, l’avevo specificato a conclusione di quel mio dire: “Il rispetto di genere nasce da una consapevolezza culturale ed educativa, piuttosto che da formule dissimulatrici e “quote” (cosiddette rosa).
Che dire? Cos’altro dire?
Mi appello al quinto emendamento. Alzo bandiera bianca, però…
Con un ultimo scatto d’orgoglio, pur considerando che Sua Maestà Treccani si sarebbe adeguata rassegnandosi a cambiare nel giro di un anno il testo del suo vocabolario declinando al femminile la “magica parola in questione”, mi permetto di invitarvi alla lettura di un articolo a suo tempo pubblicato da Vittorio Coletti, Accademico della Crusca:
https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/nomi-di-mestiere-e-questioni-di-genere/9160
Per chi non avesse tempo di leggerlo per interno, porto in evidenza questo passaggio, pur ribadendo l’essere io quel “povero ignorante”, così come sono stato gentilmente apostrofato da chi evidentemente è nelle condizioni di poterlo dire.

Così ragiona l’Accademico Coletti; l’italiano ha spesso rafforzato la mozione femminile con un suffisso, pur, a norma di sistema, non necessario. Ed ancora: Non sempre, però; e non solo senza la sistematicità del tedesco, che, per i nomi di mestiere attribuibili ai due generi, aggiunge il suffisso –in a quelli femminili, ma anche perché a volte nella nostra lingua non occorre un suffisso, Sempre, Coletti aggiunge: le mozioni femminili sono da tempo rafforzate da suffissi, pur, a rigore, non indispensabili (da sindaco si è fatta per un certo periodo e spregiativamente sindachessa invece di sindaca), o da desinenze specifiche, anch’esse non obbligate dal sistema. Per concludere: Nei nomi italiani non si può prescindere dal genere. Per questo, un nome di cariche o di ruoli che prescinda dal sesso di chi di volta in volta li copre è utile e a volte necessario, e, secondo me, non bisognerebbe aver timore ad usarlo nel genere assegnato, anche se oggi non coincide più interamente con quello dell’appellativo.
Ma il punto non è questo… Mica volevo ergermi a linguista!
La questione è: siamo sicuri di voler subire l’imposizione del politically correct? Subirla senza reazione alcuna?
E – rivolgendomi alle giovani neofemministe di ultima generazione – vi basta questo? Tutto qui? Vi basta una A finale per risolvere la questione di genere?
Scusate, ma non capisco. Appartengo, per mia fortuna ad altra generazione.
Noi siamo quei maschi che hanno vissuto – e condiviso – la rivoluzione dei costumi, il trionfo della libertà.
Siamo quelli della rivoluzione sessuale, dei tempi in cui le donne ci gridavano in faccia “…è mia e la gestisco io!”. Tempi in cui le rivoluzioni erano una cosa seria e, se per i sessantottini puri e duri la rivoluzione politica si compiva tenendo in mano il “libretto rosso” di Mao, per le donne protagoniste della straordinaria rivoluzione dei costumi era indispensabile tenere in mano ben altro libro: il “Rapporto Kinsey”, ovvero lo studio sulla sessualità che da allora ha cambiato per sempre il nostro modo di concepire e vivere pulsioni e passioni. Perché Alfred Kinsey sta alla sessualità come Copernico all’astronomia eliocentrica, Darwin alla teoria dell’evoluzione e Einstein alla fisica relativistica. È il fondatore di una scienza fino ad allora ignota, avvolta dalle superstizioni e ostaggio della pubblica morale.
Una vera e propria presa di coscienza che avrebbe cambiato, allora e per sempre, il modo di affrontare un argomento fino a quel momento considerato assolutamente intimo, non pubblico, vero e proprio tabù da custodire gelosamente entro il desco coniugale. Una vera e propria presa di coscienza, una consapevolezza che, facendo il paio con lo sdoganamento dell’uso della pillola anticoncezionale, invertiva il paradigma dei rapporti di coppia: la donna era padrona della propria vita, compresa quella sessuale, lontana dal controllo maschile. E l’uomo si scopriva debole ed impreparato a vivere questa nuova realtà, mostrando i limiti di un genere, quello maschile appunto, perennemente infantile.


Siamo quelli che hanno vissuto un periodo glorioso e pionieristico, preludio di grandi conquiste in tema di mentalità e di costume. Siamo la generazione che – uomini e donne fianco a fianco; anzi, ragazze e ragazzi fianco a fianco – lottavano insieme per la legge sul divorzio, per il referendum sull’aborto: adesso, invece, ci si balocca accontentandoci di realizzare la “rivoluzione linguistica”. Nuove generazioni alle quali ci rivolgiamo facendo loro credere che le “grandi conquiste” sono i Gay Pride e le distinzioni LGBT, la “conquista” di genitore 1 e genitore 2. Aspetti a noi indifferenti perché nessuno sognava di ghettizzare chi aveva fra i propri idoli Freddie Mercury (quante lacrime versate per la sua morte prematura! E quante lacrime ancora oggi verso ogni volta che rivedo il film che racconta la sua vita). Era gay, embè? Lo era anche Boy George, che cantavamo a ballavamo come lui dondolandoci senza remore di alcuno, così come lo era George Michael, Elton John e quanti altri verso i quali non avevamo quei preconcetti, quelli che oggi invece abbondano, con la necessità di dedicare sezioni a parte, giornate celebrative a parte, ghettizzazioni para intellettuali. E se oggi per modello c’è Luxuria, per la nostra generazione c’era Eva Robins.
Le nostre ragazze indossavano con naturalezza e senza remore minigonne mozzafiato che – certo – a noi suscitavano emozioni: restavamo incantati, sbavavamo, ma mai osando minimamente pensare di mancare loro di rispetto, un rispetto dovuto e da loro conquistato senza rivendicazioni di genere, politicamente e linguisticamente corrette. Ballavamo i lenti eroticamente sussurrati da Jane Birkin (ie t’aime… moi non plus), cantavamo a sguarciagola L’Avvelenata e Disperato erotico stomp, La donna cannone e La canzone di Marinella.

La mia generazione cresceva scoprendo, insieme ragazze e ragazzi, che si poteva essere “porci con le ali”, invece oggi…
Trastullatevi pure, se ciò vi basta, con queste effimere “conquiste”. Esaltate pure il banale cambio di etichetta su una porta, mostrate con orgoglio la “Rinnovata Treccani” immaginandola una vostra, grande “conquista”… se solo questo vi può bastare!
A me non suscita emozione. Rimango alle mie vecchie battaglie – culturali e politiche, liberali e liberiste, quelle sì di costume capaci di abbattere muri, fisici e ideologici – rimango ancorato ai miei vecchi e datati studi proposti da vecchi professori verso i quali si riservava rispetto pur combattendoli, quegli studi che facevano riferimento agli intellettuali illuministi, quelli che spiegavano che per riformare la società e la politica, era necessario che gli esseri umani (uomini e donne in egual misura) imparassero a liberarsi dal giogo delle false dottrine e di una morale dettata dalla paura.
Invece, un popolo abituato a conquiste di piccolo cabotaggio, che soddisfa il proprio ego attraverso post sui social, che annienta il pensiero altro, diverso dal suo, con contumelie e offese, da volgare haters, è un popolo che si abituerà facilmente a servire e ad essere sottomesso.
Sottomesso? Questo proprio no: personalmente non potrei mai.
Ed allora, a prescindere se condividiate o meno i miei pensieri (non sarò io a chiedervelo), lasciate che li possa esprimere, presuntuosamente immaginando che per convincere un popolo sprovveduto sia necessario incominciare a fare breccia nelle questioni che riguardano molto da vicino ogni singola persona.
Se a voi basta l’aggiunta di una A finale, fate pure. Ma una domanda: con la parola intellettuale, come la mettiamo? E amante? E ignorante?
Io proseguo lungo la mia strada tranquillizzato dal fatto che non potrò incontrarvi, perché non è la stessa che voi mai attraverserete.
P.S.= Buon lavoro ai futuri amministratori, che sia un assessore oppure un’assessore (citando l’Accademico della Crusca, Vittorio Coletti).