Sul podio Brunori, solo terzo e premio per il miglior testo. In trionfo Giorgia quando ritira il Premio TIm, dopo che la platea aveva sonoramente fischiato la sua esclusione dai Top5
di Maurizio Bonanno
L’esplosione vitale e dirompente di Angelina Mango? La rottura rivoluzionaria e rock, dai vecchi schemi dello stereotipo all’italiana, dei Maneskin? Le alternative di Mahmood, prima da solo e poi insieme a Blanco? Ricordi passati, non necessariamente da ricordare.
Come una novello Metternich della musica italiana, Carlo Conti completa la sua opera di Restaurazione al Festival di Sanremo e chiude trionfalmente la sua opera di normalizzazione riportando l’orologio indietro, recuperando la rassicurante melodia all’italiana e consegnando ad un giovane emergente – perché, comunque, è bene che la risposta/proposta arrivi da un giovane e non da una esperta rodata e riconosciuta come Giorgia – le chiavi del successo.
La 75° edizione del Festival della Canzone Italiana (questa la denominazione letterale di quello che noi chiamiamo semplicemente il Festival di Sanremo) viene vinta da Olly, che ci ricorda quanto sia “balorda” la nostalgia, ma che soprattutto ci riporta alla tradizione. Il suo brano è una classica canzone festivaliera secondo schemi consolidati: incipit, strofa, ritornello, strofa, ritornello, verso la tirata finale a chiudere, con un pizzico di gioventù che consola (un po’ ricordando Blanco). Una costruzione musicale chiara e definita come nella migliore tradizione della musica melodica all’italiana.

Che questa normalizzazione alla fine piaccia, perché rassicurante e meno problematica (ma pensate quali tumulti interiori provocò il grido dei Maneskin, la denuncia di Mahmood e l’invito all’allegria di Angelina!), lo conferma il trionfo consolatorio, con tanto di lacrime per emozione e gratitudine, di Giorgia costretta ad accontentarsi del “premio di consolazione” per fare spazio al giovane Olly. Fa la sua bella figura Brunori Sas, che sale sul podio come terzo ed incassa il prestigioso Premio per il miglior testo portando (riportando) all’Ariston una spruzzatina di cantautorato il più classico (con citazione e/o influenze degregoriane e doveroso omaggio a Lucio Dalla nella serata cover).
In effetti, è un premio meritato: la canzone è bella nel suo insieme ed il testo poetico con vari spunti di riflessione. “L’albero delle noci” racconta l’inquietudine e le ansie di una persona normale quando scopre che sarà genitore e vive non solo la gioia dell’evento, ma anche il dubbio di inadeguatezza dinanzi ad un radicale cambiamento della vita. Brunori ha il pregio di raccontare con delicatezza sensazioni che tutti provano davanti a questa importante novità: canta la gioia ma anche la trepidazione che una nuova nascita porta con sé, l’avvento di un amore che non chiede niente in cambio, l’irruzione di una felicità inspiegabile e a tratti incontenibile nel tenere in mano una creatura che sa di te, ma anche la paura di poterla perdere ‘sta felicità, questo dono – diventare genitore – che è anche una responsabilità. E lo fa con una leggerezza che non è mai superficialità concedendosi un riferimento alla propria terra, alle radici, alle stagioni, alle foglie che vanno ed a quelle che vengono ritornando così (lui e noi con lui) nel ruolo di figlio. Figlio di una terra che è anche crudele, perché è “dove la neve si mescola al miele”, ma pure affascinante e bella come un albero delle noci, raccontando ogni sensazione con grande semplicità e dolcezza.

L’auspicio è che il secondo posto sia sufficiente a spegnere gli ardori dei tanti spesisi per la santificazione in vita di Luca Corsi, che resta comunque la sorpresa del Festival, ma non esageriamo…
Che Cristicchi meritasse qualcosa oltre il quinto posto (addirittura dietro a Fedez, mah!) per le emozioni che ha dato era giusto, ma… proprio il Premio per la musica mi è apparso strano: a mio personale giudizio, in questa canzone quello che è mancato è stata proprio la musica non all’altezza del testo, però…
Comunque sia, a parte la normalizzazione compiuta da Carlo Conti, quel che resterà di questo Sanremo, oltre al vincitore che piace ai giovani che frequentano le piattaforme, sarà – sempre a mio personale giudizio – altro: il tormentone di Coma Cose che riempirà i nostri mesi di “Cuoricini” (sai quanti tik tok spunteranno…), il meme Fuorilegge di Rose Villain, il ritmo e l’atmosfera (che mi è decisamente piaciuta) di Shablo (con il calabrese Tormento che ha vissuto una sua personale rivincita artistica e la voce blues/gospel di Joshua), l’omaggio accennato di Willie Peyote a Pino D’Angiò, la traccia di Tananai dentro Achille Lauro, l’incompiuta di Tiziano Ferro per Massimo Ranieri e – soprattutto – la classe con bellezza ipnotica di Elodie. Resterà la traccia profonda segnata dal menestrello Luca Corsi, così come sentiremo nei prossimi mesi il ritornello dei Kolors e l’Amarcord di Sarah Toscano. E – chissà? – il ritmo di Serena Brancale (una sorpresa interessante) e di Rocco Hunt.
Si è celebrata così la “Settimana Santa Laica” degli italiani, l’unico momento che realmente unisce tutti: i nazionalpopolari e gli intellettuali snob che giurano di non vederlo Sanremo, ma poi pontificano come loro costume. Si ritorna adesso al solito quotidiano: polemiche, astiosi attacchi, vacue promesse. Insomma la solita vita, quella dove, sperando di restare “Per sempre noi incoscienti giovani Incoscienti giovani”, nella realtà accade che “le persone buone portano in testa corone di spine”.