I carabinieri e la Polizia hanno arrestato 8 persone, 6 finite in cacere e due ai domiciliari, e tra questre spicca la figura della moglie del capoclan che da anni gestiva gli affari di famiglia
Gli anni successivi a grandi operazioni di Polizia con conseguenti retate e arresti, sono sempre i più difficili da gestire, innanzitutto a causa della mancanza fisica di un capocosca che detti legge nelle zone di competenza con la proliferazioni di atti criminali, soprattutto di basso cabotaggio, perpetrati da seconde, terze, quarte file che vogliono farsi notare, e poi perché c’è bisogno di una grossa quantità di denaro che serve per pagare gli avvocati e sostenere le famiglie degli arrestati.
Cosa succede allora che qualcuno di deve prendere la briga di raccogliere temporaneamente il testimone e rimettere tutte le cose al loro posto.
A Lamezia Terme lo ha fatto una donna, la moglie del boss insieme ad uno dei suoi uomini più fidati, entrambi mai coinvolti nelle precedenti vicende giudiziarie.
E così dopo le operazioni di polizia che hanno condotto, il 14 maggio 2015 e 22 febbraio 2017, alla decimazione della compagine associativa Iannazzo – Cannizzaro – Daponte, è stata la moglie del capoclan a continuare a esercitare il controllo nei quartieri di Sambiase e Sant’Eufemia di Lamezia Terme, compresa l’area industriale, intervenendo nei litigi e nelle controversie civilistiche tra privati o assicurando “protezione” dall’aggressione al patrimonio e all’incolumità personale, e a compiere attività di estorsione e usura, reinvestendo i capitali accumulati in aziende di comodo gestite in maniera occulta, ma di fatto formalmente intestate a soggetti terzi “fittizi”.
In particolare è emerso che il sodalizio mafioso, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali, aveva dato fittiziamente le quote di una società di autonoleggio, presente nella zona dell’aeroporto, a un prestanome che gestiva l’azienda coadiuvato dalla moglie, dipendente dell’impresa, ma che eseguiva le direttive operando sotto il controllo dei proprietari e amministratori occulti, che mensilmente raccoglievano i dividendi dell’attività.
Alcune direttive sulla gestione degli affari di famiglia, provenivano anche dal carcere, dove il figlio del boss riusciva, attraverso un cellulare nascosto nella cella, a comunicare all’esterno. Agli atti del fascicolo, sono presenti degli episodi di estorsioni, di cui l’ultima in ordine di tempo, tentata ai danni di un imprenditore edile che aveva appena comprato un capannone nell’area industriale.
Le forze dell’ordine però non sono state a guardare e questa mattina hanno dato esecuzione ad un provvedimento cautelare emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Catanzaro, in particolare, i Carabinieri del Comando Provinciale di Catanzaro e gli agenti della Polizia di Catanzaro e Lamezia Terme hanno portato in carcere 6 indagati e messo agli arresti domiciliari altri due, accusati a vario titolo di “associazione di tipo mafioso”, “estorsione”, “usura”, “intestazione fittizia di beni”, “accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”, “detenzione di armi da fuoco”, nonché hanno sequestrato una società di autonoleggio e una somma di denaro per un ammontare di 7.820 euro.
Tutti i nomi degli indagati
Francesco Amantea, inteso Franco, 69 anni di Lamezia in carcere
Mario Gattini, 50 anni di Lamezia; indagato
Antonio Iannazzo detto Mastru ‘Ntoni, 68 anni di Lamezia; in carcere
Deborah Iannazzo 39 anni di Lamezia; indagata
Emanuele Iannazzo 44 anni di Lamezia, ai domiciliari
Francesco Iannazzo detto U Cafarone 70 anni di Lamezia; in carcere
Francesco Antonio Iannazzo 33 anni di Lamezia;
Pierdomenico Iannazzo 46 anni di Lamezia; in carcere
Vincenzo Iannazzo 35 anni di Lamezia; in carcere
Luigi Notarianni 43 anni di Lamezia;
Giovannina Rizzo 70 anni di Lamezia, in carcere
Giuseppe Ruffo 35 anni di Cropani ai domiciliari