L’indimenticabile esperienza di quella intervista che concesse a me, giovane cronista. I suoi messaggi che ancora oggi mostrano una straordinaria attualità
di Maurizio Bonanno
Sembra incredibile eppure è accaduto.
In questo mondo dove tutto può e viene archiviato a futura memoria, è la dimenticanza che invece sembra coltivarsi. Perché in realtà quello che viviamo è un mondo ormai essere diretto solo dagli algoritmi che fanno sembrare che ciò che accade sia solo quello che ci viene fatto vedere.
E, quindi, può accadere quello che è successo in questi giorni, in cui è passato praticamente sotto silenzio il centenario della nascita di Giovanni Spadolini (1925–2025), perdendo così l’occasione di ricordare uno degli uomini più straordinari del Novecento italiano.
Storico, giornalista, intellettuale, riformatore, politico, in lui, la parola “cultura” non fu mai una cornice retorica, ma la sostanza stessa del vivere. Fu il primo, in un’Italia ancora incerta e divisa, a dare alla cultura dignità istituzionale, fondando nel 1974 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Un atto potentissimo, un gesto politico che poneva la cultura come un diritto pubblico, che appartiene a ogni cittadino, un valore che va custodito e condiviso, perché una nazione vive solo se conosce e ama la propria storia, che è identità, anima: «La cultura non è un ornamento dello Stato. È il suo cuore», ripeteva.
Ci credeva. E lo dimostrò ogni giorno: nei suoi articoli, nei suoi discorsi, nelle sue riforme. Portò avanti una battaglia paziente e inflessibile per difendere archivi, tutelare paesaggi, valorizzare biblioteche, salvare monumenti, dare risorse e senso a ciò che molti consideravano secondario. Per Spadolini, non c’era nulla di più urgente del rendere la cultura una priorità pubblica.
Ma non è il solo atto politico di straordinaria rilevanza che si lega al ricordo di Giovanni Spadolini, perché toccò proprio a lui, dopo che per più di 35 anni la presidenza del Consiglio era stata monopolio della Democrazia cristiana, approdare nel 1981 a Palazzo Chigi, primo laico: il fiorentino Giovanni Spadolini, segretario del Partito repubblicano ed ex direttore del “Corriere della Sera”. All’epoca aveva 56 anni.
Ricordare Giovanni Spadolini è un dovere, certamente per tutto questo, ma lo è ancora di più per noi vibonesi.

Divenuto, nel frattempo, Presidente del Senato, mai venne meno la sua fama di storico illustre e soprattutto studioso attendo e attendibile del Risorgimento italiano. In questa duplice veste venne a Vibo Valentia, regalando a noi tutti una giornata memorabile.
Era il 22 maggio 1993, una splendida giornata di sole, calda come sa essere qui da noi una bella giornata di primavera inoltrata. L’inaugurazione del monumento a Michele Morelli avvenne con il discorso del Presidente del Senato, che regalò ai vibonesi una eccezionale sensazione di orgoglio attraverso le sue parole
Spadolini tenne in Piazza Mayo, dinanzi al monumento appena inaugurato, un discorso dai toni particolarmente sentiti: “Oggi che l’unità d’Italia è discussa e contestata da ogni parte e riaffiorano fermenti di municipalismo e di separatismo – disse il Presidente del Senato – noi ci inchiniamo alla memoria di questo coraggioso figlio di Vibo Valentia, protagonista, per usare le parole di Luigi Settembrini, della prima vera iniziativa rivoluzionaria del Risorgimento, animata dall’ideale dell’unità d’Italia. Il profilo di Morelli pare incastonato, suo malgrado, ancora oggi nella cornice barocca del grande moto napoletano del 1820/21, prodromo logico e necessario alle rivoluzioni maggiori del 1831 e del 1848. Ma dietro l’apparente e lineare semplicità della sua personalità è possibile scorgere un’esemplare sovrapposizione di stimoli e di passioni talora contrastanti, che ben ritraggono il tumultuoso passaggio dall’età napoleonica a una restaurazione ricca di fermenti e illusioni”.
Le conclusioni del senatore e professore Giovanni Spadolini, in questo suo memorabile discorso dinanzi al monumento, sono da considerare ancora oggi uno straordinario punto di riferimento per chi intende ricordare l’eroe vibonese proiettandolo nell’attualità: “La figura di Michele Morelli, patriota che si identificò in una rivoluzione generosa e innocente, come la chiamerà Francesco De Sanctis – affermò, infatti – si iscrive appieno nella storia del riscatto nazionale, nelle lotte per l’unità d’Italia. Un sacro ideale che è ancora una meta da raggiungere, per noi nipoti o pronipoti di quel Risorgimento che vediamo sfumare nella memoria delle nuove generazioni. E che dovrebbe tornare a rappresentare il massimo titolo di legittimità per l’Italia europea: per quell’Italia che fu intuita dagli uomini del 1820/21, tutti fedeli, avrebbe detto Benedetto Croce, al significato nazionale italiano e insieme alla naturale cornice europea dell’Italia. Sì: la Giovine Europa di Mazzini!”.
Ero lì, io: in piedi dinanzi al palco allestito per questo suo discorso. Vibonese orgoglioso per quanto stavo ascoltando a proposito di una figura eroica alla quale mi sono sempre rispirato; giornalista in servizio, giovane cronista incaricato dalla mia testata, TeleSpazio, di raccontare questa storica giornata e possibilmente riuscire ad intervistarlo – lui grande giornalista, mitico direttore di uno dei quotidiani più importanti nella storia del giornalismo italiano; lui, Presidente del Senato; lui storico, da tutti considerato uno dei massimi studiosi della storia del Risorgimento.
Con l’intraprendenza tipica di un giovane incosciente, mi feci spazio tra gli uomini del servizio d’ordine e, microfono in mano, mi avvicinai al Presidente Spadolini chiedendogli di poter fare qualche domanda.
Sceso dal palco, aveva imboccato la salita che porta su corso Umberto, avendo chiesto di potersi rinfrescare in un bar. Con la sua figura solenne, la parlata netta, l’austera eleganza toscana, mi guardò con sguardo severo ma nello stesso tempo comprensivo, quasi complice: “Ragazzo – mi apostrofò – adesso, qui, no”.
Chissà, forse cogliendo la mia delusione, subito riprese a dire porgendomi il braccio: “Vieni con me e, dopo una bevanda, fresca parliamo”.
Così fu.

Mi concesse una indimenticabile intervista, paziente e disponibile alle mie domande, imponendolo con l’autorevolezza del suo sguardo un silenzio non facile da ottenere nel trambusto dei tanti che gli si volevano avvicinare. Io lì, a raccogliere i suo pensieri, ad assistere a quei momenti, quando, dopo essersi complimentato (consegnandogli anche una medaglia d’argento) con l’artista Maurizio Carnevali, autore del monumento, volentieri accettò in dono il bozzetto di questa opera, realizzata quale pezzo unico in argento massiccio dall’orafo vibonese Roberto Prandina, dichiarando significativamente: “Dopo la mia morte, sarà collocato nel Museo Nazionale per la Storia del Risorgimento, assieme ai miei ottantamila volumi”.
Prima dei saluti, mi dedicò un ultimo concetto, come a voler spiegare il senso della sua presenza a Vibo Valentia e del discorso tenuto pochi minuti prima, ma che a me ancora oggi suona come un messaggio, anzi un monito, soprattutto un punto di riferimento che dovrebbe essere pietra miliare di chi davvero vuole fare cultura: «La cultura non serve a ricordare il passato. Serve a costruire un futuro che ne sia degno».
La cronaca, poi, racconta che il Presidente del Senato, dando prova di avere gradito questa occasione vibonese di storia risorgimentale, prima di lasciare Vibo Valentia volle visitare, potendola guardare però solo dall’esterno, la casa dove era nato Michele Morelli.
Un ultimo messaggio, trasmesso con l’esempio, che suona come un invito a rispettare e ricordare gli eventi della nostra storia: perché ciò che siamo oggi, lo dobbiamo a quanto e come – è stato fatto ieri!