Ogni tentativo di importazione di modelli politici provenienti dall’estero, è inevitabilmente ed inesorabilmente destinato al fallimento
di Alberto Capria
Le strutture essenziali della democrazia, iniziando dai parlamenti liberamente eletti che ne costituiscono l’architrave, assolvono alla funzione di equilibrio istituzionale, riflessione civile e rispetto reciproco pur nelle fisiologiche divisioni; assicurando nel contempo il normale avvicendamento tra le componenti politiche che coesistono all’interno di una stessa società, in una corretta logica di alternanza allorquando il loro rapporto si modifica su base di libere elezioni.
Questa funzione, liberamente esercitata all’interno di libere istituzioni, si annulla allorquando le legittime divisioni che inevitabilmente esistono e auspicabilmente coesistono all’interno di una società nazionale, hanno natura etnica o religiosa. Perché queste ultime, al contrario degli orientamenti politico-ideologici che si modificano nel tempo, sono rigide, quasi immutabili: in tutte le etnie, in tutte le religioni e, ovviamente, in tutti gli integralismi intesi come concezione in base alla quale società, politica e cultura, devono essere “integralmente” modellate secondo le norme della religione. E l’equilibrio tra loro si modifica con la forza (spesso) e con tempi necessariamente lunghi (sempre).
Del resto il passaggio dalla “theocrazia o dalla dittatura” alla democrazia, impone tempi necessariamente distesi.
Parafrasando J. Dewey, la democrazia è qualcosa di più complesso di una semplice definizione politica; la democrazia è sostanzialmente una “way of life”, un atteggiamento della vita di ogni individuo integrato con gli altri individui.
Anche perché quando pur si pensasse che sia possibile l’esportazione tout court, l’instaurarsi della democrazia non è di per sé sufficiente a creare condizioni di convivenza civile in Paesi dove sussistono forti conflittualità di carattere etnico o religioso: come invece può più facilmente accadere allorquando i contrasti si strutturano su basi politiche o ideologiche.
Non c’è alcun bisogno di scomodare Fukuyama ed il suo splendido “Esportare la democrazia”: occorre soltanto prenderne atto, riflettere su errori che appartengono ad un passato remoto e prossimo e che, mai come in questo momento, connotano presente ed immediato futuro.
Occorre esserne consapevoli e pensare, per la storia a venire, non a nuovi Cowboy bravi ad utilizzare “lazo e Colt”, ma a diversi strumenti di conciliazione e compromesso, con tempi necessariamente lunghi; non servono slogan ma una Politica nazionale ed europea con altre visioni e ben più alte, in particolar modo all’interno delle organizzazioni mondiali.
“La Democrazia non è esportabile secondo i nostri tempi ed i nostri canoni soprattutto nei Paesi islamici, perché sono teocrazie fondate sulla volontà di Allah, non su quella del popolo: e Dio e popolo sono due principi di legittimità opposti e quasi sempre inconciliabili”. Così si esprimeva, da par suo, Giovanni Sartori.
La storia recente e l’attualità sono lì ad insegnarci che ogni tentativo di importazione di modelli politici provenienti dall’estero, è inevitabilmente ed inesorabilmente destinato al fallimento, soprattutto se accompagnato da sterili protagonismi, sciocche primogeniture ed offensive menzogne.