Ora l’abitudine alla bruttezza ha invaso anime e menti. Da quelle parti il volo basso è ciò che definiscono vita, e il bancone di un bar il loro ideale di bellezza
di Pierluigi Lo Gatto
La torrida afa rendeva la pozza d’acqua salvifico nettare. Il possente pachiderma sembrava immobile ,come statua di pietra avvezza a umane e divine intemperie.
D’un tratto un battito d’ali rompe quella quiete che pare eterna ,come schiocco di dita di esperto ipnotista .
“Sei ancora qui?! – un’inquieta Cucula dalla voce stridula si rivolge ironica all’accaldato Elefante – Vieni con me, sei ancora in tempo. Abbandona quest’arida savana e seguimi in posti dove la frescura è lieve e il cibo abbondante. Come vedi siamo in tanti a migrare, ciascuno con piume che cambian colore, e ognuno raggiunge luoghi che promettono vita agiata senza fatica”
“Lo so – risponde l’Elefante scuotendo uno dei grandi orecchi vanamente aggredito da una seducente mosca – Ho buona memoria e ne ho visti tanti di migratori, sempre in cerca di posti migliori e di migliori offerenti. Ma tu sei molto giovane, eppure sembri di grande esperienza”.
“È vero – arringa la Cucula, fiera di lasciar trapelare cotanta intraprendenza – Ho soggiornato in un posto al di là della grande acqua, ove cambiar casacca è quotidiana abitudine e il vespero migrar lo sport principale. È lì, a Vibo Valentia, che ho imparato a depositare le mie uova in più nidi, che laggiù chiamano “Liste”, e ad aspettare a pancia piena che altri svolgano i miei compiti. E sempre lì ho compreso che non sono importanti l’altezza e la qualità del volo, bensì il numero di penne che riesci ad incollare alle tue ali”.
“Ma non ci sono cacciatori? Con le loro canne tonanti possono far stragi” – domanda l’Elefante, sollevando incuriosito la proboscide.
“Sono davvero pochi – risponde la Cucula – e quando raggiungono le loro postazioni, chiamate “ Urne”, perdono improvvisamente la memoria. Il loro fucile si trasforma in tremula matita, che sigla la speranza di ricevere per favore ciò che dovrebbe spettar loro di diritto. Gli altri, ebbri di ricordi, ingrossano sconsolati la lunga fila degli ignavi”.

“Allora sarà di certo un luogo prosperoso, pieno di stimoli e risorse”- commenta l’Elefante.
“Una volta lo era – chiosa la Cucula – Ma è passato molto tempo. Ora l’abitudine alla bruttezza ha invaso anime e menti. Resta, però, il posto ideale per i migratori, specie per quelli che aspirano ad un retribuito e rassicurante far nulla. Certo, non saranno attratti da un buon libro o da un’opera d’arte, ma il volo basso è ciò che definiscono vita, e il bancone di un bar il loro ideale di bellezza. Ma si è fatto tardi; devo andare, altrimenti il mio posto nello stormo sarà preso da altri. Se cominci a correre anche tu, forse riesci ad arrivare in tempo”.
L’Elefante scuote le lunghe zanne, che paiono accarezzare il suolo polveroso: “Non posso. Le mie zampe sono grosse come il tronco di quel Baobab, e il mio cuore ha le stesse profonde radici. Sono un elefante, e non riesco a trasformarmi in antilope o pantera. Preferisco mangiare foglie non più verdi e tenere piuttosto che mendicar noccioline da mani non sempre linde”.
Due piccole proboscidi si avvinghiano alla coda del padre, come barche legate ad una robusta goména.
“E poi, se anch’io cambiassi manto e forma per assicurarmi oggi un pasto immeritato, che futuro darei ai miei adorati cuccioli? Vai pure, Cucula parassita: la mia amica Aquila non cesserà mai di sfidare il sole africano, ed il fiero Leone di ruggire alla fame. Il vecchio Baobab resiste qui da secoli, insegnandoci ciò che condividiamo intorno alla pozza d’acqua: la dignità. La mia amata Savana non diventerà mai come Vibo Valentia”.
P.S.= Scovate le tante cucule nelle liste e sparate. Senza indugio, nell’ urna, sparate