Riflessioni sulle pagine del Vangelo di domenica 26 ottobre
di Mons. Giuseppe Fiorillo
Carissime, carissimi,
oggi, con questa pagina del Vangelo di Luca, siamo sempre in cammino verso Gerusalemme, cammino fatto di passi, ma ancor più di insegnamenti.
A chi aveva l’intima convinzione di essere giusto e disprezzava gli altri, Gesù narra una parabola, sconvolgente per i benpensanti del suo tempo.
Eccola: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non usava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io, vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. (Luca 18,9-14)
I due protagonisti di questa parabola, che salgono al tempio per pregare, rappresentano due atteggiamenti religiosi opposti ed inconciliabili.

Il fariseo.
I farisei, al tempo di Gesù, erano una sorta di congregazione forte nel mettere in pratica la legge di Mosè e le tradizioni “tramandate dai Padri”, contenenti ben 613 norme alle quali davano la stessa importanza che veniva data alle Dieci Parole della Torah. Grande attenzione ponevano nell’osservare la ritualità riguardante il cibo, la preparazione degli alimenti ed il lavarsi le mani fino al gomito. Stavano attenti alle persone con le quali mangiavano per non diventare ritualmente impuri. Criticavano Gesù perché mangiava con i peccatori e disprezzavano i suoi discepoli perché non si lavavano le mani ai pasti. Ricevevano, tuttavia, grande considerazione dal popolo, che li riteneva giusti e devoti.
Veniamo al fariseo della parabola. Sta in piedi, prega da solo, separato da gli agli altri (fariseo significa, difatti, separato), alza lo sguardo verso l’alto, secondo le usanze delle preghiere ebraiche: e fin qui tutto bene! Poi meno bene, quando presenta al Signore le ragioni del suo pregare: “Non sono come gli altri”… Gli altri uomini per lui sono ladri, ingiusti, adulteri…lui e ben altro: lui digiuna due volte la settimana, lui dà la decima di tutto quello che produce o acquista. Lui è soddisfatto e presuntuoso! Disprezza gli altri e ringrazia Dio per non essere come il pubblicano che stava in fondo al tempio. La sua è una preghiera egoista che ruota intorno al suo “io”… io pago, io digiuno, io prego due volte al giorno, al mattino ed al pomeriggio… È un uomo sazio di legge, ma privo dell’amore di Dio, perché non Lo lascia entrare nella sua storia.
Il pubblicano.
Il pubblicano della parabola è un esattore probabilmente delle tasse doganali. Le tasse erano i tributi dovuti a Roma che aveva conquistato la Palestina, nel 65 avanti Cristo, e venivano raccolte nei porti, nelle piazze ed alle porte delle città e dei villaggi. Tutti gli esattori della tasse erano cordialmente disprezzati dalla gente, perché considerati estorsori ed iniqui e ritenuti impuri, alla stregua dei peccatori e delle prostitute. Il pubblicano, che sta nel tempio, non è una persona onesta e ne ha piena coscienza. Non ha niente da offrire a Dio, ma molto da ricevere da Lui: il suo perdono e la sua misericordia. Non si scusa. Riconosce di essere peccatore. Si batte il petto e, chino verso terra, emette poche parole con le quali confessa tutto il suo malessere interiore:” Dio, abbi pietà di me, peccatore!”.
Il finale della parabola è assai sconvolgente per i professionisti della religione, ieri come oggi!
Il pubblicano, che mette a nudo la sua anima e dà spazio a Dio, viene sollevato dalla sua miseria, a differenza del fariseo, che credendo di salvarsi da sé e con le sue opere, resta prigioniero della sua presunzione.
Buona domenica con un messaggio che ci viene dal libro di spiritualità medievale: l’imitazione di Cristo: “a Dio piace più l’umiltà, dopo che abbiamo peccato, che la superbia, dopo che abbiamo fatto le opere buone”.
Don Giuseppe










