Il paesaggio come specchio interiore. Estetica dell’assenza e memoria dei luoghi nel volume dito da Libritalia nella collana Li Edizioni)
C’è una soglia sottile tra il documento e la rivelazione, tra il visibile e l’invisibile. Ghost Town – Immagini e parole, si muove esattamente su questa linea fragile, esplorando non tanto i luoghi abbandonati quanto le loro risonanze interiori. È un libro che non racconta la desolazione, ma l’attesa: il tempo sospeso in cui la materia conserva la memoria dell’uomo.
Nel panorama contemporaneo della fotografia d’autore, Ghost Town – Immagini e parole si distingue come un progetto editoriale capace di unire rigore visivo e intensità emotiva. Curato da Giulio Bellini e pubblicato da Libritalia nella collana Li Edizioni, il volume affronta un tema tanto attuale quanto universale: l’abbandono dei borghi, la dissolvenza lenta e dolorosa della memoria collettiva.

La fotografia, in Bellini, non è mai semplice registrazione del reale. È piuttosto un atto di ascolto. Le sue immagini, sospese tra documentazione e poesia, restituiscono ai luoghi dimenticati una dignità visiva che trascende la semplice testimonianza. Ogni fotografia – muri scrostati, finestre cieche, piazze vuote – sembra vibrare di un’eco sommersa, di un passato che non si arrende al silenzio. Questi scatti non descrivono: interrogano. Ci costringono a sostare, a lasciare che il vuoto si riempia di presenze. In questo senso, Ghost Town non parla dei fantasmi come figure nostalgiche, ma come proiezioni della coscienza collettiva, riflessi di ciò che rimuoviamo per poter avanzare.
Il testo che accompagna le immagini – breve, misurato, mai retorico – agisce come una partitura emotiva. Le parole di Bellini non spiegano, ma guidano la percezione, accompagnano le immagini – brevi riflessioni, frammenti poetici, annotazioni di viaggio – amplificano la forza del racconto visivo con una sorprendente coerenza narrativa. Ogni scatto contribuisce a un racconto corale che parla di identità, perdita e possibilità di riscatto.
L’invito non è a osservare, ma a ricordare. E nel ricordare, riconoscersi.
Il volume non è però un esercizio di nostalgia. L’intento di Ghost Town è profondamente politico e civile. “Questi spazi silenziosi non chiedono pietà, ma memoria, azione, riscatto”: questa dichiarazione programmatica si trasforma nel filo conduttore dell’intero progetto, dove il gesto fotografico diventa anche gesto etico, atto di restituzione del senso.
Dal punto di vista estetico, il volume si colloca in una tradizione visiva che dialoga con la landscape photography più meditativa, ma la supera nella direzione dell’interiorità. Il paesaggio abbandonato non è qui un oggetto esterno, ma uno spazio psichico. Le crepe dei muri diventano ferite della memoria, i vuoti delle case diventano lacune dell’identità. Lo sguardo di Bellini è partecipe e insieme analitico: registra la materia del tempo e, nel farlo, interroga la nostra capacità di ancora appartenere a qualcosa.
Sfogliare Ghost Town significa attraversare una soglia di silenzio, ma anche confrontarsi con la propria finitudine. L’assenza di giovani, la scomparsa delle voci, il lento deteriorarsi delle abitazioni sono segni di un destino che non riguarda solo i paesi dimenticati, ma la nostra stessa condizione contemporanea: quella di una civiltà che consuma i propri luoghi e poi li rimuove, incapace di abitare la memoria.
In un’epoca in cui l’immagine rischia di ridursi a consumo visivo rapido e superficiale, Ghost Town ci restituisce il tempo della contemplazione. È un libro che chiede di essere sfogliato lentamente, quasi in silenzio, per permettere ai suoi “fantasmi” di parlare.
Perché, in fondo, Bellini ci consegna un gesto di speranza. La fotografia diventa possibilità di rinascita, strumento di ricomposizione tra ciò che è stato e ciò che può ancora essere. Guardare Ghost Town significa accettare il dolore dell’abbandono, ma anche scorgere, tra le rovine, la forma possibile di un futuro.
Non c’è malinconia in queste immagini, ma una chiamata silenziosa alla responsabilità del ricordo.
E alla fine, ciò che resta non è solo la malinconia per ciò che è stato, ma la speranza di ciò che può ancora essere. Perché, come suggerisce Bellini, i paesi abbandonati non sono rovine, ma semi di una possibile rinascita: basta avere il coraggio di ascoltarli.
E così, quando chiudiamo il volume, comprendiamo che il vero “fantasma” evocato non è il paese che scompare, ma la parte di noi che rischia di dimenticare di essere stata viva.











