Insulti, aggressioni social, delegittimazioni reciproche: la politica italiana vive da tempo immersa in un linguaggio esasperato, che confonde la passione con l’aggressività e la fermezza con l’intolleranza
di Marcello Bardi
La vicenda che ha travolto il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, non è solo l’ennesimo episodio di cronaca politica locale. È il sintomo di una crisi più profonda, che riguarda il modo stesso in cui oggi viene interpretato il potere amministrativo: non più come servizio, ma come campo di battaglia.
L’aggressione al consigliere Ioppoli — indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno scatenata — rappresenta un cedimento simbolico e morale. Quando un rappresentante delle istituzioni ricorre alla forza invece che alla parola, la democrazia, ancor più quella locale, smette di essere un esercizio di partecipazione e diventa un’arena di sopraffazione. In quel momento, il principio di rappresentanza perde di senso, e con esso l’autorevolezza dell’istituzione.
Ma il problema non è solo individuale. L’episodio di Crotone rivela quanto la politica territoriale sia oggi logorata da una tensione permanente, dove il confronto politico viene percepito come minaccia, e il dissenso come tradimento. Troppo spesso le amministrazioni locali diventano prigioni di rancori interni, ostaggi di equilibri precari e alleanze costruite sulla sabbia.
Il gesto di Voce, che ha annunciato le dimissioni, può essere letto come un segno di responsabilità tardiva ma necessaria. C’è, infatti, un momento nella vita pubblica, in cui riconoscere il proprio errore vale più di mille giustificazioni. Il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, con le dimissioni rassegnate dopo l’aggressione al consigliere comunale Ernesto Ioppoli, compie un gesto raro nella politica contemporanea: un atto di responsabilità e di dignità.
Certo, il fatto resta grave. Nessuna tensione politica può giustificare un gesto di violenza, tanto più quando a compierlo è chi rappresenta le istituzioni. Ma la decisione di farsi da parte, accompagnata da scuse sincere e pubbliche, restituisce a Voce un profilo umano e politico che merita di essere riconosciuto. In tempi in cui la parola “responsabilità” è spesso svuotata di significato, il suo passo indietro riporta nel dibattito politico un valore che sembrava smarrito: la consapevolezza del limite.
Il gesto del sindaco non cancella l’accaduto, ma lo riscatta in parte. È la prova che anche nella caduta può esserci un atto di coraggio. Rinunciare alla poltrona per riaffermare il rispetto delle istituzioni non è debolezza, ma forza morale. Un esempio che, paradossalmente, nasce da un errore e si trasforma in testimonianza.
Questa vicenda, tuttavia, non riguarda solo un uomo o una città. È lo specchio di un clima politico sempre più avvelenato, dove la violenza non è più fisica — per fortuna — ma è soprattutto verbale, quotidiana, quasi fosse normale. Insulti, aggressioni social, delegittimazioni reciproche: la politica italiana vive da tempo immersa in un linguaggio esasperato, che confonde la passione con l’aggressività e la fermezza con l’intolleranza.
Da qui l’importanza di leggere le dimissioni di Voce non solo come atto individuale, ma come monito collettivo. Perché quando il rispetto viene meno, le istituzioni perdono credibilità. E senza credibilità, la politica non è più strumento di governo, ma teatro di sfogo.
Un promemoria affinché la politica, ancor più quella locale, non continui a consumarsi in liti di potere e personalismi, dimenticando che dietro le sedie delle istituzioni ci sono cittadini in attesa di risposte.
La lezione di questa crisi dovrebbe essere chiara: il potere non è un privilegio, ma una responsabilità. Chi lo esercita non deve essere perfetto, ma consapevole che ogni gesto, ogni parola, ogni reazione pesa più di quanto sembri. Perché nelle istituzioni, anche un attimo di perdita di controllo può trasformarsi in un crollo di credibilità collettiva.
Crotone, oggi, attraversa un momento difficile. Ma può trovare in questa crisi una lezione per ripartire: quella che la dignità non si misura negli errori che si commettono, ma nel modo in cui si ha il coraggio di riconoscerli.
E forse, da questo gesto, l’intera classe politica può trarre un insegnamento: che il potere non si difende alzando la voce, ma abbassando i toni. Che la forza di un’istituzione non sta nella sua autorità, ma nella sua capacità di dare l’esempio. E che la politica torni a essere ciò che dovrebbe sempre essere: un luogo di servizio, non di scontro.











