Un ricordo personale della Divina che mi insegnò a sognare. Il cielo di Calabria, dove adesso viveva, saluta la sua campionessa… e io il mio primo amore
di Maurizio Bonanno
Il basket italiano ha perso la sua «Divina».
Io, invece, ho perso il mio primo amore adolescenziale.
Non è facile confessarlo su un giornale, e forse non l’ho mai fatto davvero: da ragazzo ero innamorato di Mabèl Bocchi. Un innamoramento autentico, ingenuo, totale. L’amore che si prova quando il mondo è ancora un luogo nuovo e ci si lascia guidare da emozioni che non hanno ancora imparato a chiedere permesso.
Per molti miei coetanei i primi turbamenti arrivavano davanti alle dive del cinema, alle cantanti in voga, alle attrici patinate. Io no. Io aspettavo le partite di basket in tv per vedere lei: Mabèl. Alta, dinamica, fortissima. Una di quelle atlete che ti fanno dubitare che la gravità valga per tutti. Saltava come se volesse oltrepassare qualcosa, forse un limite, forse una definizione. E in quel volo io vedevo una forma di bellezza che non avevo mai incontrato prima.
Mabèl Bocchi se n’è andata a 72 anni. Negli ultimi mesi era stata colpita da una malattia, che nel giro di pochissimo tempo ha notevolmente peggiorato il suo stato di salute fino alla morte, mentre era a San Nicola Arcella, nel cuore della Calabria che aveva scelto come buen retiro. Proprio nella mia Calabria.

Ed è questo dettaglio, questo ritorno finale nella terra che amo, a rendere tutto ancora più struggente. Perché lei aveva scelto volutamente questo nostro lembo di Sud come rifugio, come luogo di pace. La sua casa sulla collina, lo sguardo fisso sul Tirreno, la sagoma dell’Isola di Dino a tenerle compagnia. Un sigaro acceso, i suoi animali intorno, la brezza sul volto. Immaginarla su quella collina affacciata sul Tirreno, mi stringe il cuore: quella tranquillità finale era un luogo che le somigliava. Essenziale, libera, luminosa.



Non è semplice riassumere la vita di una donna che è stata tante donne insieme. Una fuoriclasse del basket — una delle più forti di sempre, e dirlo non è un’iperbole — laureata a 21 all’ISEF, quello che oggi è la laurea in Scienze Motorie, e poi volto televisivo popolare, firma autorevole sulla Gazzetta e sul Corriere. Consigliera comunale, pittrice, artista materica, spirito libero.
Le sue mille acconciature dicevano più di molte interviste: cambiava spesso, ma sempre restando profondamente se stessa. I suoi amori liberi, le sue inquietudini. La sua Africa, scoperta accanto a un guerriero masai che fu suo fidanzato. La sua ribellione istintiva contro ogni ingiustizia. Tutto di lei emanava un’energia che non si poteva ignorare.
E poi c’era quel tratto che da ragazzino mi sembrava incomprensibile e magnetico: la sua determinazione senza sconti. In campo e fuori. La grinta che non arretrava mai, la capacità di difendere le proprie idee con una passione quasi feroce.
Mi colpiva la sua forza, certo. Ma anche la simpatia, l’intelligenza, quella presenza che sembrava accendere lo spazio intorno.
Forse è per questo che, allora, la amavo così intensamente. Quella miscela — la bellezza fisica e quella mentale, la leadership naturale, la simpatia travolgente, il carattere forte fino alla testardaggine — che mi faceva tremare lo stomaco ogni volta che compariva sullo schermo. Me ne innamoravo. Di un amore ovviamente impossibile, irragiungibile. Ma necessario. Come lo sono i primi amori veri: quelli che non tocchi, non vivi, ma senti. E che ti insegnano — quando ancora non sai niente dell’amore — che si può desiderare qualcuno senza possederlo, ammirarlo senza capirlo fino in fondo, sognarlo sapendo che resterà per sempre un sogno.
Un amore impossibile — lo sapevo perfettamente — ma che aveva la purezza delle prime infatuazioni, quelle che non chiedono nulla se non di esistere. Quelle che, anche decenni dopo, riconosci come un mattone fondamentale della tua crescita.


Per questo, oggi, la notizia della sua morte non è solo un fatto sportivo, non è solo la scomparsa di una leggenda. È la fine di un frammento della mia giovinezza, di quell’età in cui si impara a sognare guardando qualcuno che nemmeno sa della tua esistenza.
Per questo la sua morte mi tocca nel profondo, come un richiamo improvviso a una stagione di vita lontana ma ancora viva, conservata con cura da qualche parte.
Riposa in pace, Mabèl.
Hai fatto la storia del basket.
Ma per qualcuno — per quel ragazzo che ti guardava incantato attraverso lo schermo — hai fatto qualcosa di ancora più grande: gli hai insegnato la meraviglia.
E questo, ora che te ne sei andata, è il ricordo che resta. E che resterà.










