Il ricordo personale di un artista che se ne è andato all’età di 75 anni. Il ricordo di una serata fra note e umanità: non brillano più gli occhi verdi di tua madre!
di Maurizio Bonanno
Il crepuscolo cade lento, e con esso si spegne anche un’epoca. La morte di Sandro Giacobbe è anche questo!
Non brillano più gli occhi verdi di tua madre.
E con loro, si è spenta una luce che ha attraversato generazioni, portandosi via non solo un artista, ma anche una parte della mia vita.
Quando ho saputo che Sandro Giacobbe se n’era andato, nella sua Liguria che profumava di mare e malinconia, ho sentito un vuoto difficile da spiegare: come se qualcuno avesse chiuso una finestra della mia giovinezza, lasciandomi per un attimo al buio.

Sandro Giacobbe è stato un cantautore simbolo degli anni ’70 e ’80, certo. Uno di quelli che non avevano bisogno di urlare per farsi ascoltare. Le sue canzoni non vivevano di moda o di rumore, ma di un’emozione segreta, quasi pudica. C’era qualcosa di unico nella sua voce: quella dolcezza malinconica che avvolgeva l’ascoltatore e lo portava in un mondo fatto di sentimenti semplici, sinceri, potentissimi.


Signora mia, Gli occhi di tua madre: non erano solo brani. Erano pezzi di vita vera. Erano storie che tutti avevamo vissuto in qualche forma, anche senza ammetterlo.
Ricordo che avevo scelto di inserire Signora mia nella mia scaletta della trasmissione su Radio Calabria perché, pur non essendo il mio genere musicale preferito, quando l’avevo ascoltata per la prima volta avevo scoperto un coraggio tutto suo, particolare. Signora mia era una canzone che sfidava l’Italia democristiana di allora, stringeva in pugno un desiderio proibito e lo trasformava in poesia. Non a caso fu la sua svolta, il suo biglietto d’ingresso nel cuore di milioni di persone. E poi, Gli occhi di tua madre, terza classificata a Sanremo: una carezza e una scossa insieme, un’emozione che ancora oggi attraversa come una fitta improvvisa.
Ma oltre l’artista — e forse soprattutto oltre l’artista — il ricordo più intenso è per l’uomo.
La sua riservatezza. La sua gentilezza naturale, mai studiata. Il suo modo di stare al mondo con discrezione, quasi con timidezza, come se il clamore non fosse cosa sua. Era uno che ti guardava negli occhi quando parlava e sembrava davvero ascoltarti. Uno che non voleva stupire, ma capire.
E proprio questa sua umanità è ciò che mi colpì nel nostro incontro, quello che porto nel cuore come un dono. E mi ricorda la gaffe memorabile che consumai una notte alle Buche del 501.
Ero giovane allora. Il dj delle Buche del 501, la mitica discoteca dell’Hotel 501 a Vibo Valentia, un posto che negli anni ’70 e ’80 era un porto di approdo per artisti, attori, cantanti, che avevano eretto questo hotel quale loro dimora ogniqualvolta venivano in Calabria. Le stagioni dei grandi eventi artistico-musicali che il Gruppo Mancini organizzava grazie alla straordinaria verve di quello che tutti affettuosamente chiamavamo “Don Saverio”. Non c’era cantante, attore, artista che in quegli anni non abbia soggiornato al 501 hotel e non sia sceso almeno una sera in discoteca.
Ed io ero il re della consolle, o almeno così mi sentivo. Le serate filavano veloci, piene di ritmo, di gente, di luci che pulsavano come un cuore impazzito.
Era una di quelle notti in cui tutto sembrava possibile. La discoteca era “a mille”, la pista stracolma, la musica picchiava forte e io mi godevo quel momento di onnipotenza giovanile.
A un certo punto, si avvicina un tizio, un tipo da spaccone simpatico, e mi fa: «Ehi, ragazzo, adesso cambia ritmo: vogliamo sentire le canzoni di Sandro Giacobbe!»
Io scoppio a ridere. Gli dico, con quella spavalderia che solo i vent’anni ti danno: «Ma sei matto? Le canzoni di Giacobbe? Vuoi svuotare la pista? Qui facciamo casino!».
Lui insiste.
Io insisto di più.
La mia arroganza cresce insieme al volume della musica.
Finché non lo vedo.
È lì. A due passi da me. Sandro Giacobbe in persona.
Mi si gela il sangue. La faccia mi brucia. Vorrei sprofondare sotto la consolle, sparire, dissolvermi come una nota stonata.
E invece lui… sorride. Quel sorriso dolce, malinconico, timido e buono che ho poi sempre riconosciuto in lui.
Si avvicina e mi dice piano: «Lascialo stare, non ha capito che siamo in discoteca. Hai ragione tu, adesso non è il momento per le mie canzoni. Vai avanti così, ci stiamo divertendo».
Con una frase sola mi salvò la serata, la faccia e forse anche la carriera.
E soprattutto, mi rivelò chi fosse davvero Sandro Giacobbe: un uomo gentile, umile, capace di disinnescare un imbarazzo col sorriso invece che con l’ego.
Più tardi, a discoteca chiusa, rimanemmo a parlare al bar fino all’alba. Una conversazione semplice, sincera, come se fossimo due amici qualsiasi. È uno dei ricordi più limpidi e preziosi che custodisco di quegli anni.
Intanto, quella sera si era consumata in quel modo, ma… non potevo lasciarla andare così.
E infatti, la sera seguente, con il suo consenso, presi il microfono e annunciai: «Abbiamo un ospite d’onore: Sandro Giacobbe».
Lui si avvicinò alla consolle, ci scambiammo una strizzata d’occhio complice e aprì la serata con una sua canzone.
E in quel momento, tra luci, note e applausi, sentii che quella piccola ferita dell’imbarazzo si era trasformata in una di quelle storie che si raccontano per tutta la vita.
Oggi, mentre penso a lui, alla sua voce, alla sua dolcezza, a quegli occhi che sapevano sorridere anche quando la vita faceva male, sento che se ne va qualcosa di più di un artista.
E se ne va un frammento della mia storia. Un pezzo del mio lavoro, della mia gioventù, della mia musica.
Se ne va un amico di una notte, di un’alba, di un ricordo che non smetterà mai di farmi tenerezza.











