Il rischio è che la comunicazione politica smetta di spiegare e inizi solo a dividere.
di Stefano Maria Cuomo
La frase con cui il ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, ha risposto alla contestazione di un gruppo di studenti sul difficile semestre filtro per l’accesso alla facoltà di Medicina ha subito fatto il giro dei social: “Sapete come diceva il presidente Berlusconi? Siete sempre dei poveri comunisti”.
Questa frase, urlata dal palco davanti a un pubblico eterogeneo, non è stata solo un tentativo di interrompere una protesta: è diventata simbolo di un tipo di linguaggio politico che preferisce l’etichetta facile alla discussione sostanziale. Un richiamo a una retorica che divide.
In un dibattito pubblico già polarizzato, definire i contestatori con un termine carico di storia e di peso ideologico — “comunisti” — non ha funzionato come argomentazione, ma come una chiusura simbolica. È un modo di parlare che semplifica il dissenso a una categoria stereotipata, più che affrontarne i contenuti; evoca vicende politiche del passato, richiamando un lessico di contrapposizione tipico degli anni ’80 e ’90; accende l’immaginario collettivo in modi diversi a seconda della formazione culturale e politica di chi ascolta.
Per un pubblico liberale, questa scelta linguistica rischia di apparire anacronistica o fuorviante: il termine “comunista” — qui più insulto retorico che analisi — non spiega nulla delle ragioni profonde della protesta degli studenti sui criteri di accesso alle facoltà di Medicina. Perché un ministro dovrebbe usare una frase del genere?
Ci sono diverse possibili letture:
1. Riprendere un patrimonio simbolico di riferimento per il proprio elettorato. Certe frasi storiche hanno valore «identitario» per chi già condivide una certa visione politica, e il loro richiamo può consolidare supporto all’interno di una platea favorevole.
2. Spiazzare l’avversario, cancellando il peso specifico della protesta sul piano del contenuto e trasformandola in uno scontro ideologico generico.
3. Rispondere allo stress comunicativo di una contestazione dal vivo, scegliendo un’espressione già pronta e popolare invece di affrontare nel merito le critiche.
Tuttavia, questa strategia ha anche un effetto collaterale: sposta il dibattito dalla sostanza dei problemi — la gestione della riforma universitaria, i ritardi, le difficoltà reali degli studenti — a una dimensione simbolica e polarizzante.
Quando una figura istituzionale usa un’espressione così forte, essa non resta confinata dentro l’evento in cui è stata pronunciata. Nell’immaginario collettivo diventa meme, citazione e materiale di discussione digitale; si trasforma in lente interpretativa di altri discorsi politici simili, contribuendo allo schema “noi vs loro”; rafforza stereotipi su chi protesta, indipendentemente dal contenuto delle critiche.
Se il linguaggio politico serve a orientare, informare e motivare un elettorato, allora l’uso di termini schematici come “comunista” — soprattutto rivolti a giovani universitari — rischia più di dividere che di spiegare. In un momento storico in cui la fiducia nelle istituzioni e nel dibattito pubblico è spesso bassa, questo tipo di retorica può sostituire la discussione con una polarizzazione semplificata.
La frase di Bernini ad Atreju non è stata un semplice scambio acceso con studenti in protesta: è un esempio accentuato di come il linguaggio politico, invece di chiarire posizioni e punti di vista, può evocare simboli e identità storiche.
Per i lettori liberali, l’invito è a guardare oltre l’effetto emotivo delle parole e chiedersi: quanto lontano porta questo modo di parlare dalla possibilità di un vero dialogo pubblico? Perché un ministro dovrebbe usare un’espressione così?
Non è solo provocazione: è un richiamo identitario a un linguaggio ereditato dal passato, pensato per parlare alla propria base più che per rispondere nel merito alle critiche. Un’etichetta semplice, immediata, che chiude la discussione più che aprirla.
Nell’immaginario collettivo questo tipo di linguaggio rinforza la polarizzazione: trasforma una protesta concreta in uno scontro ideologico generico, riduce il dialogo a slogan e alimenta l’idea di una politica che preferisce il simbolo all’argomentazione.
Per un lettore liberale, la domanda diventa inevitabile: che spazio rimane per un confronto serio se il dibattito viene ricondotto a categorie del passato?
Il rischio è che la comunicazione politica smetta di spiegare e inizi solo a dividere.











