Perché questo desiderio, talvolta spasmodico, di dare un significato profondo alla nostra permanenza terrena, fugace come battito d’ali?
di Pierluigi Lo Gatto
Capita a tutti (ma sempre più di rado) di distogliere per un attimo lo sguardo dagli ammalianti schermi o di staccare la spina dai circuiti automatici che ci inchiodano al profitto e ci integrano nel sistema. Tra profumi d’erba selvatica e canti invitanti di grilli, stamattina è capitato a me.
Mentre un maestoso baio mi fissava, quasi interrogandosi sullo scopo della mia presenza ad un’ora inusuale per moderni bipedi, anch’io ero a domandarmi il senso di quella imprevista passeggiata. Anzi, complice un piacevole venticello che pareva recare con sé antichi canti di pastori devoti al selvaggio Pan, un’altra domanda irrompeva prepotente a spazzar via altri futili pensieri: qual è il senso della mia vita, o, più in generale, dell’umana esistenza?
Quanti filosofi, letterati, artisti, antropologi, scienziati di varie discipline e, come me, comuni passeggiatori si sono posti e si pongono il medesimo interrogativo!
Ma perché questo saltuario tormento? Perché questo desiderio, talvolta spasmodico, di dare un significato profondo alla nostra permanenza terrena, fugace come battito d’ali?
Forse quegli antichi pastori, mentre soffiavano nel loro dolce flauto, immersi in una armonia non inquinata da invasivi algoritmi, rivolgevano i loro pensieri solo alla danza delle api sui fiori, ai germogli che si schiudevano alla nuova alba , al fragile agnellino che belava alla luna, alla notte in cui la quiete era interrotta da un’orchestra di cicale. Forse loro, maestri della Natura e profondamente immersi in essa, non si affannavano nel difficile quesito. Che bisogno c’era di trovare un senso alla vita , quando la morte, ad essa strettamente connessa, è l’implosione di tutti i sensi ?
L’obbligo della sacra alternanza era sotto i loro occhi: il susseguirsi ritmico delle stagioni , della luce e del buio, della fertilità e vecchiaia degli amati animali, delle ingiallite foglie cadute e di quelle nuove e verdi. Essi conoscevano bene la dimensione tragica dell’esistenza ,indifferente al destino dei singoli ma ligia alla potenza delle regole della Physis. Sapevano che nessun nuovo inizio è possibile senza l’ineluttabile fine.
E anche noi, scrutatori dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, dovremmo ricordarcene più spesso. Noi che crediamo di dominare l’atomo e di mutare il fato, noi che lottiamo boriosi per sconfiggere la temuta fra le genti, ma dalla cui lotta usciamo perennemente sconfitti. Noi che ci affidiamo a salvifiche promesse e allettanti speranze.
Eppure proprio ciò che ci caratterizza, il marchio della Natura sull’effimero uomo, il filamento prezioso che perpetua la specie, ha inscritto con caratteri indelebili l’assenza di senso che non vogliamo accettare: si tratta delle triplette “nonsense”, che codificano il termine della sintesi, la fine dell’espressione del gene. Ma proprio questa cessazione consente la vita, così come un fiore si trasforma in humus per nuovi colori.
L’Io si sgretola piano e si acquieta la mia ragione, mentre termina il mio percorso mattutino. Domani, se la Necessità lo consentirà, sarò pronto per un nuovo cammino.










