I social media non sono il male assoluto, ma sono specchi che mostrano e amplificano le nostre tensioni culturali
di Stefano Maria Cuomo
Negli ultimi anni, i social media sono diventati uno spazio centrale per l’interazione, la costruzione d’identità e la mobilitazione sociale tra i millennials. Ma diventano anche terreno fertile per l’odio razziale — non sempre palese, spesso subdolo — che lascia cicatrici psicologiche e culturali difficili da ignorare.
Secondo uno studio condotto nel Regno Unito con giovani dai 16 ai 24 anni appartenenti a comunità razzializzate (Black, Asian e altre minoranze), quasi tutti hanno riscontrato contenuti razzisti online almeno una volta alla settimana. Più concretamente, il 95% ha visto contenuti violenti o offensivi legati al razzismo, nel 16% dei casi tali contenuti appaiono quotidianamente.
E questi numeri non restano senza conseguenze: molti giovani segnalano che l’esposizione ha effetti negativi sulla salute mentale, senso di sicurezza e benessere.
Ecco alcuni modi in cui i social media contribuiscono a diffondere o rafforzare l’odio razziale tra i millennials:
1. Algoritmi che premiano l’ingaggio, non l’equilibrio
I post che suscitano emozione (“shock”, rabbia, indignazione) tendono a essere privilegiati: generano più commenti, più condivisioni. Ed è spesso in questi tipi di contenuti che il razzismo — esplicito o velato — trova spazio.
2. Echo chamber e polarizzazione
Chi già ha certi pregiudizi tende a consumare contenuti che li confermano, a seguire persone che confermano quei punti di vista e ad evitare il contrario. Ciò crea ambienti sociali digitali dove il razzismo può essere normalizzato, deriso, oppure percepito come “libertà di opinione”.
3. Vicinanza vicariante al danno
Anche chi non è direttamente bersaglio vive comunque la discriminazione online per conto degli altri. Legge commenti razzisti, assistendo a video, storie, attacchi contro persone che condividono identità razziali simili. Questo “osservare” può essere traumatizzante, contribuendo ad ansia, senso di impotenza e alienazione.
4. Cultura della sfida e del meme
Umorismo tossico, meme provocatori, “trollaggio” — tutto questo può mascherare oppure normalizzare messaggi razzisti. Spesso la linea tra provocazione e hate speech diventa sottile, e la “leggerezza” con cui vengono trattati certi temi abbassa la soglia della tolleranza verso l’odio.
Perché i millennials (nonostante una maggiore sensibilità) non sempre reagiscono. Si genera una sorta di saturazione attraverso l’esposizione continua e non è facile opporsi a tutto, ancora meno staccarsi dai social senza perdere connessione.
Vi è poi un altro aspetto non meno trascurabile: il dubbio sull’efficacia. Molti percepiscono che segnalare o denunciare contenuti razzisti abbia scarso impatto. Le politiche delle piattaforme spesso sembrano inefficaci, poco trasparenti o incoerenti.
A ciò si aggiunga la paura della stigmatizzazione sociale: esprimere opinioni contro il razzismo può essere complicato in certi ambienti, specialmente se si tratta di amici, gruppi online o comunità che hanno idee diverse.
Cosa si può fare? Quale possibile strategia per contenere (o almeno mitigare) il problema?
Innanzitutto, maggiore trasparenza da parte delle piattaforme su come moderano i contenuti razzisti; poi, criteri chiari e coerenza; quindi, miglioramento degli strumenti di segnalazione, e risposta più rapida. E, soprattutto, educazione digitale: insegnare nei contesti scolastici e universitari (ma non solo) a riconoscere l’hate speech, le microaggressioni, l’impatto del linguaggio online
Ed ancora: spazi positivi: promuovere narrazioni che valorizzano le identità razziali, iniziative di solidarietà digitale, usare i social per costruire ponti e dialogo.
In conclusione, i social media non sono il male assoluto, ma sono specchi che mostrano e amplificano le nostre tensioni culturali. Per i millennials, che hanno vissuto la transizione all’epoca digitale, la sfida è saper navigare questi spazi riconoscendo i rischi senza cadere nella rassegnazione: perché, anche online, le parole contano.









