La scelta dell’amministrazione comunale di chiamare i Modena City Ramblers apre il paradosso: istituzionalizzare la controcultura per una festa che dovrebbe unire
C’è qualcosa di stonato, quasi di paradossale, nella scelta dell’amministrazione comunale di Vibo Valentia per il Capodanno. Mentre il resto della Calabria si prepara a salutare l’anno nuovo con concerti pensati per raccogliere insieme famiglie, giovani, turisti e cittadini — dalle dirette televisive su Rai1 a Catanzaro agli artisti pop più contemporanei (Brunori sas a Cosenza, Negramaro a Corigliano Rossano, Max Gazzè a Crotone) — Vibo Valentia decide di imboccare una strada inattesa, quella del ritorno a un immaginario anni Novanta: il pogo, i centri sociali, il combat-folk e i Modena City Ramblers come colonna sonora istituzionale della notte più inclusiva dell’anno.
E così, la notte di Capodanno verrà celebrata… pogando.
Sì, pogando. E fin qui nulla di male: il pogo è parte della storia della musica alternativa, un linguaggio culturale potente. Ma lo è nel suo contesto naturale: i centri sociali, i collettivi, gli spazi autogestiti, le realtà che negli anni ’90 esprimevano dissenso, comunità dal basso, politicizzazione diffusa. Non certo le piazze istituzionali di un Capodanno finanziato con soldi pubblici.
La scelta dell’amministrazione guidata da Enzo Romeo appare dunque singolare e profondamente stonata. Non perché i Modena City Ramblers non meritino rispetto — sono parte importante della cultura musicale italiana — ma perché inserirli in un evento istituzionale come la festa di Capodanno significa convertire un simbolo di controcultura in prodotto da palcoscenico istituzionale, svuotandolo di senso e, paradossalmente, snaturandolo.
Dove un tempo il pogo era un atto di rottura, qui diventa un ornamento da brochure, la versione sterilizzata di un linguaggio nato per contestare proprio quel tipo di palcoscenici. È un’operazione culturale incoerente, che tenta di sfruttare la forza simbolica di un passato che l’amministrazione non rappresenta e che anzi rischia di ridicolizzare.
Il problema non è musicale, né riguarda il valore artistico del gruppo, una band storica come i Modena City Ramblers. Il punto critico sta nel senso che questa scelta porta con sé, nel simbolismo che inevitabilmente trascina: perché quel mondo — il mondo del pogo come gesto politico, delle piazze autogestite, dell’antagonismo culturale che animava gli anni ‘Novanta’90 del secolo scorso — non è un pezzo di folclore da sbandierare per una sera, né un elemento neutro da appoggiare distrattamente in un cartellone istituzionale. È un linguaggio, un’identità precisa, un contesto con una storia che non si sterilizza semplicemente cambiando cornice.
E proprio questo rende il Capodanno di Vibo Valentia un caso curioso: non tanto perché “si poga”, ma perché lo si fa in nome e per conto dell’istituzione, con fondi pubblici, come se il folk militante potesse diventare improvvisamente arredo urbano, come se la controcultura potesse essere programmata in calendario e illuminata dai fari del Comune. È qui che nasce la contraddizione, che anche il comunicato del coordinamento cittadino di Fratelli d’Italia — pur con i suoi toni volutamente polemici — mette in evidenza: una festa che dovrebbe essere inclusiva viene caricata, consapevolmente o meno, di un immaginario che inclusivo non è mai stato. Un Capodanno che si presenta come un evento per tutti diventa invece una scelta identitaria, persino nostalgica, che non tiene conto della pluralità del pubblico a cui dovrebbe rivolgersi.
Fratelli d’Italia reagisce parlando di “festa dell’Unità mascherata”, di propaganda ideologica, di Capodanno trasformato in un palcoscenico per un’estetica politica non condivisa. Le parole del coordinamento cittadino del partito, per quanto inevitabilmente strumentali, colgono comunque un nodo reale: l’amministrazione ha fatto una scelta che non è neutra. E se un’amministrazione sceglie di assumere un identità culturale così precisa — e così radicata in una certa parte politica — ha il dovere di interrogarsi su come questa decisione risuonerà nella comunità. Invece, la sensazione è che si sia agito per suggestione, per nostalgia, forse persino per automatismo: un nome che evoca un’epoca, un’energia, un’idea di festa… senza però interrogarsi su ciò che rappresenta oggi, nel contesto di una piazza pubblica, per un pubblico eterogeneo.
Ciò che dispiace davvero, al di là delle polemiche, è la perdita di un’occasione. Vibo Valentia avrebbe potuto immaginare un evento capace di parlare a tutti, di raccontare una città che guarda avanti, che prova a costruire un’identità contemporanea e condivisa. Invece ha scelto un ritorno al passato che non è reinvenzione culturale, ma semplice rievocazione. E una rievocazione, per di più, priva della forza originaria: il pogo istituzionalizzato è un controsenso, un gesto svuotato della sua ragione d’essere, un simbolo che perde senso proprio nel momento in cui viene promosso dall’istituzione a spettacolo.
L’amministrazione comunale aveva tra le mani una possibilità semplice: offrire ai cittadini un evento pensato per tutti, non solo per chi riconosce e apprezza un certo immaginario politico-culturale del passato. Ha preferito invece un gesto autoreferenziale, che divide invece di unire, che guarda indietro invece che avanti.
Di fronte alle accuse del coordinamento cittadino di FdI e all’entusiasmo dell’amministrazione, resta un’amara constatazione: nel mezzo, i cittadini sembrano essere gli unici dimenticati. Non si tratta di fare un concerto “di destra” o “di sinistra”: si tratta di rispettare la complessità culturale di una comunità e il significato simbolico delle scelte pubbliche. Chi governa dovrebbe saperlo: una piazza non è un palco su cui proiettare nostalgie personali o appartenenze più o meno implicite. È uno spazio comune, che richiede cura, equilibrio, visione.
E qui sta il vero problema: la visione non si vede. Il Capodanno di Vibo Valentia non racconta il futuro della città, ma un passato che tutto sommato questa città non ha mai vissuto e che viene riproposto senza interrogarsi su cosa significhi oggi. È un’immagine evocativa, certo, ma priva di profondità. Una scelta che divide invece di unire, che richiama simboli senza comprenderne la portata. Un Capodanno che più che costruire identità, la simula.
In fondo, Vibo Valentia meritava un’idea forte, non un’operazione nostalgica e politicamente di parte. Merita un’amministrazione capace di pensare a ciò che la città può diventare, non solo a ciò che qualcuno ha amato trent’anni fa. E meritava, soprattutto, una festa davvero per tutti.











