È un giorno di lutto per il giornalismo italiano. Nel 1990 venne conferita ad Eugenio Scalfari la cittadinanza onoraria di Vibo Valentia
di Maurizio Bonanno
Con l’addio a Eugenio Scalfari, scomparso oggi all’età di 98 anni, il giornalismo italiano perde una delle sue figure di maggiore rilievo in assoluto. Sempre al centro di discussioni e polemiche, è stato l’inventore di un nuovo modo, più diretto e avvincente, di raccontare la politica e l’economia, senza paura di schierarsi in modo netto quando lo riteneva opportuno.
Nato il 6 aprile 1924 a Civitavecchia, cittadina della quale era originaria la madre, la biografia di Eugenio Scalfari è fatta anche di trasferimenti e cambi di residenza ben avendo chiaro, però, il suo DNA calabrese, anzi vibonese: si trasferisce da ragazzo con la famiglia a Sanremo, dove il padre Pietro (lui, sì nativo di Vibo Valentia) lavora al casinò: nella città ligure frequenta il liceo e il futuro scrittore Italo Calvino è il suo compagno di banco.
Aveva appena 8 anni quando, nella sua Vibo Valentia, muore il nonno di cui porta il nome e, in tutta evidenza, non solo questo. Dal nonno Eugenio, infatti eredita molte delle caratteristiche e tendenze che rappresentano anche il suo personale vissuto: illuminista di vecchio stampo (il nonno, addirittura, fu massone), dichiaratamente libertino sul piano filosofico e per certi aspetti anche anticlericale, coltivava tuttavia una propria acuta sensibilità spirituale e aveva trovato un interlocutore disponibile in Papa Francesco.
Penna vivace e a volte straripante (i suoi editoriali domenicali su Repubblica rimangono un evidente esempio), conversatore brillante e salace, uomo amante della musica (suonava il pianoforte), Eugenio Scalfari aveva notevolissime doti manageriali e sapeva valorizzare i talenti giornalistici delle sue testate, che dirigeva con piglio dinamico quanto paternalistico. Carattere difficile, spigoloso, carismatico, scontroso, altero, ma con il giornalismo quale sua nota distintiva di inimitabile maestro.
Dal nonno eredita soprattutto la verve giornalistica al punto di essere entrambi fondatori di storiche testate. Infatti, se nonno Eugenio è il fondatore dello storico L’Avvenire Vibonese (1881), il nipote Eugenio nel 1955 fonda, con l’appoggio economico dell’imprenditore illuminato Adriano Olivetti, il settimanale L’Espresso e nel 1976 fonda il nuovo quotidiano la Repubblica, di cui assume la direzione, e nel giro di pochi anni riesce a imporlo come uno dei più influenti e popolari organi di stampa del nostro Paese. In mezzo, la parentesi parlamentare, eletto al Senato nel 1968.
In politica Eugenio Scalfari esordisce quale esponente del Partito radicale negli anni Cinquanta; poi il passaggio al Partito socialista per il quale sarà senatore dal 1968 al 1972.

Soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita Eugenio Scalfari ha, in un certo senso, recuperato la sua storia familiare ricordando spesso il suo sangue calabrese. Innanzitutto, il ricordo del padre Pietro eroe della Grande Guerra, legionario a Fiume, amico di D’Annunzio che gli dedicò anche una poesia; e poi, direttore del Casinò di Sanremo: una figura complessa che così lui stesso descrive nelle pagine del suo “Racconto autobiografico”, pubblicato nel 2017: «Affascinante e infingardo, colto e strano… molto vitale e molto impetuoso, gioioso e audace». E poi giocatore, spesso perdente, seducente e seduttore.
Questo perché, sebbene l’Eugenio Scalfari fondatore di “Repubblica” sia nato a Civitavecchia, la sua è una famiglia vibonese che nell’Ottocento era radicata e perfettamente integrata nel tessuto socio-culturale dell’allora Monteleone (così come fino al 1928 Vibo Valentia era chiamata); una famiglia di antica tradizione vibonese, dunque, al punto che ancora oggi gli Scalfari sono presenti nel tessuto cittadino quantunque non più con l’influenza avuta almeno fino agli anni ‘60/’70 del secolo scorso.
Così Eugenio Scalfari descrive le sue origini, o meglio, come lui stesso dice, l’origine della sua stirpe. Lo confida a Concita De Gregorio, che realizza un pezzo dal titolo “Confesso, ho molto amato”, intervista pubblicata sull’inserto D de La Repubblica il 4 aprile 2014: “Vibo Valentia l’ho conosciuta da ragazzo. Ho trascorso in quei luoghi un periodo molto lungo attorno ai miei vent’anni. Mio nonno paterno, Eugenio, uomo erudito, è morto che avevo 9 anni. Ne ho un ricordo vivo. Ero l’unico nipote maschio. La stirpe a cui appartengo è cresciuta tra mura e rovine minoiche”.

In una più recente autobiografia, poi, lo fa raccontando un particolare legato ad un preciso ricordo del nonno paterno Eugenio, che rammenta fosse massone e socialista: quel nonno, infatti: “…in occasione del 1° maggio guidava una sorta di marcia di tutta la famiglia e dei vicini attorno al loro palazzo al canto dell’Internazionale”.
Così scrive nel suo “Racconto autobiografico” pubblicato per Einaudi ricordando le origini vibonesi della famiglia Scalfari, suo nonno Eugenio e suo padre Pietro: “Il luogo di origine della mia famiglia paterna si chiamava, fino al 1928, Monteleone di Calabria. Poi cambiò nome dopo lunghe battaglie culturali portate avanti da mio nonno (di cui porto il nome) che aveva scoperto il nome greco: Hipponium, poi foneticamente modificato in Vibonium cui il senato romano aggiunse Valentia dopo che la città aveva resistito agli assalti di Annibale.
La famiglia era composta da 5 femmine e 2 maschi, il primo di nome Antonio e il secondo (più giovane di tre anni) Pietro, mio padre.
Mio nonno era docente di italiano, latino e storia e poi fu preside del liceo di Monteleone, ma aveva tendenze politiche rivoluzionarie ed era un “fratello” della locale Loggia massonica. Gli avi avevano fondato Logge Carbonare in tutto il Catanzarese.
Ogni mattina del primo maggio la famiglia si metteva in fila indiana per ordine di età (salvo la madre che non partecipava) e intonava una canzone socialista che cominciava dicendo: “Su fratelli, su compagni / su marciate in fitta schiera / sulla libera bandiera / batte il sol dell’avvenir”. Una folta schiera di popolo si aggiungeva e percorreva le vie centrali del paese.
Antonio e Pietro tuttavia, crescendo in età, incrociarono il nazionalismo che era l’esatto contrario del socialismo paterno. Crebbero sui libri che contenevano la polemica sui rapporti politici tra l’Italia e l’Austria, amavano molto più Napoleone che i Re borbonici e Vienna restava il nemico tradizionale della recente storia italiana. Poi arrivò il D’Annunzio nazionalista che arringava il popolo per la guerra accanto all’Inghilterra e alla Francia.
Antonio partì volontario nel 1914, fu gravemente ferito nel 1916 e morì tra i tormenti nel 1923 dopo che gli era stata conferita la medaglia d’argento al valor militare. Pietro partì nel 1916, passò due anni di guerra e ricevette una medaglia di bronzo. Poi, a guerra finita ma ancora militarmente arruolato, rispose all’appello di Gabriele D’Annunzio e fu tra i “legionari” che occuparono Fiume e parte della Dalmazia per sottrarla alla Serbia cui era stata assegnata dalla pace di Versailles.
Diventò, oltre che legionario, amico di D’Annunzio di cui amava romanzi e poesie. Ha ricevuto molte lettere che il poeta gli scrisse da Gardone e un piccolo libro dannunziano sull’operazione del Carnaro con tre Mas guidati da Costanzo Ciano, Luigi Rizzo e lo stesso D’Annunzio, risalendo il Carnaro, penetrando nel porto di Pola dove era all’ancora una corazzata austriaca che fu silurata dai Mas dannunziani.
Il poeta pubblicò un libro su quell’impresa dedicato a mio padre con le seguenti parole: «Al tenente Pietro Scalfari che nella giornata di Zara cantò a squarciagola la canzone del Carnaro sull’aria della Giovinezza. Firmato l’Alpino Gabriele D’Annunzio».
Del nonno aveva ereditato anche molti dei caratteri somatici: come lui, uomo di grande fascino, dal portamento austero, quasi solenne, anche quando arrivava ai convegni con il suo bastone di sempre ripetendo un simile atteggiamento che lo storico giornalista del Corriere della Sera, Antonio Baldini descrive in uno dei capitoli dedicati a città e paesi della Calabria, nel volume Italia di Bonincontro (Firenze, 1942)

A suggellare il suo sangue vibonese, nel 1990 gli viene conferita la cittadinanza onoraria nel corso di una cerimonia tenutasi in Municipio, seguita da un convegno al Valentianum. Questa la motivazione con cui l’allora sindaco Giuseppe De Giovanni, presente anche l’allora senatore Saverio Di Bella, gli consegna il riconoscimento: “Figura professionale di elevato spessore ha basato la sua vita professionale all’insegna dell’etica dei valori della legalità, giustizia ed onestà. Valori in cui credeva fortemente”.
Con lui se va uno dei grandi giornalisti del nostro tempo. E ricordarlo anche come vibonese, di origine familiare e quale cittadino onorario, non può che essere motivo di orgoglio per la città