L’appuntamento domattina, 21 giugno, presso la Camera Penale. Spunti di riflessioni in un momento cin cui finalmente si parla e ci adopera per la tanto attesa riforma della giustizia
di Maurizio Bonanno
Materia delicata, da trattare con cura, ma che ha subito spaccato tutti i fronti, da quello politico a quello dei magistrati, fino agli stessi avvocati.
E così, abbagliati dalle peripezie da circo alle quali si stanno dedicando i principali leader politici, senza peraltro strappare al pubblico né applausi né risate, si sta consumando, per l’ennesima volta, la solita babele parolaia dinanzi ad una questione di fondamentale importanza, atto di civiltà per un popolo ed una nazione.
La prima riforma della giustizia del governo Meloni, dopo la bollinatura del testo e l’approdo alla Camera, vedrà, nella settimana prossima, l’avvio concreto della discussione con le opposizioni che hanno annunciato battaglia, mentre nel paese già si consumano accesi dibattiti e spaccature tra garantisti e riformisti.
Perché la riforma della giustizia da sempre è divisiva. Se sei garantista sei ladro o comunque connivente con il malaffare, se non lo sei, invece sei un forcaiolo. Eppure, si tratta ancora di piccoli provvedimenti che vengono introdotti dalla prima parte della Riforma Nordio, sebbene siano da ritenersi segnali culturali importanti, perché offrono l’occasione per un approccio diverso ricordandoci che la giustizia è un bene comune che riguarda tutti, anche quelli che hanno avuto la fortuna di non incappare nelle maglie non solo di un errore ma anche di un meccanismo perverso, dove devi dimostrare non di non essere colpevole ma di essere innocente. Così vanno oggi le cose.
Intanto, l’approvazione della Riforma Nordio da parte del Consiglio dei Ministri si compie in contemporanea con una ricorrenza la cui memoria non dovrebbe mai essere dimenticata.
Il 17 giugno 1983 si consumò un “orrore” giudiziario dai risvolti terribili. Enzo Tortora era alla guida di Portobello, quando fu arrestato e ingiustamente accusato di associazione camorristica e traffico di droga da condannati di mafia e testimoni non attendibili.
Da quel momento per Tortora cominciò un’odissea nelle aule di giustizia, fatta di carcere e gogna mediatica, che si concluse solo nel 1987, quando la Cassazione confermò l’assoluzione pronunciata dalla Corte d’appello di Napoli.
Con perfetta scelta di tempo, la Camera Penale di Vibo Valentia ha organizzato mercoledì 21 giugno alle ore 9.30 presso l’aula biblioteca dell’Ordine degli Avvocati un incontro dal quale spiccano due presenze straordinarie: Armando Veneto, indiscusso Maestro tra gli avvocati, e Raffaele Della Valle che di quell’autentico “orrore giudiziario” fu testimone diretto in quanto non solo difensore, ma soprattutto amico di Tortora.
Quarant’anni fa, quel 17 giugno 1983, ero già maturo abbastanza, già legato da un rapporto di stima (da parte mia) e di affetto (benevolmente, da parte sua) con l’avv. Armando Veneto, avevo già forgiato idee politiche ben definite. Secondo principi liberali e liberisti ancora oggi a me presenti e per me distintivi, per non ricordare quei fatti incredibili quanto terribili.
Quando Enzo Tortora venne finalmente assolto con formula piena, apparve fiaccato dalla vicenda, stanco e già malato, fino a morire due anni dopo: quella morte avrebbe dovuto pesare sulla coscienza di chi, ai vari livelli, gestì la vicenda con quell’enfasi mediatica, che ha poi fatto scuola e grazie alla quale oggi in Italia si assiste ad una giustizia che si sviluppa su 4 gradi di giudizio, il primo dei quali è gestito in via esclusiva dalle procure che inscenano un processo mediatico sulla base dei loro teoremi senza che la difesa possa avere voce in capitolo e con danni il più delle volte irreparabili per chi ne rimane ingiustamente vittima.
Tutto questo è possibile perché – al di là di qualunque siano le conclusioni del reale iter processuale, a prescindere dalla consistenza delle prove acquisite a supporto delle tesi accusatorie – il magistrato è esonerato da ogni responsabilità diretta della sua attività professionale, qualunque siano le conseguenze a danno di imputati ingiustamente accusati e caricati sulla gogna mediatica da certo giornalismo (ma si può chiamare così? È giornalismo?) che si pasce di beceri moralismi un tanto al chilo ignorando la presunzione di non colpevolezza che è sancita dalla Costituzione, perché prevenuti e imbevuti di cultura giustizialista.
Si lanciano strali contro questo “primo passo” proposto dal ministro Nordio, anche perché si preferisce dimenticare che in Italia si celebrò alcuni decenni un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, con il quale una maggioranza schiacciante si espresse per il SI, ovvero perché anche magistrati, giudici e procuratori, fossero sottoposti – come tutti i dipendenti pubblici, come tutti i professionisti, come tutti gli automobilisti, come tutti i medici, insomma come tutti i cittadini – al principio che chi fa danno deve risarcirlo.
Questo dissero gli italiani, ma all’indomani di quella consultazione, invece di dare corso ad ogni misura che assicurasse la puntuale esecuzione della volontà popolare, il Parlamento di allora, già indebolito e timoroso rispetto a certe procure, cedette ad una sorta di arzigogolato ricatto, dando mano alla redazione di una vera legge-truffa che “regolò” la responsabilità voluta e conclamata dal Popolo in modo da restringerla, condizionarla, “filtrarne” le richieste risarcitorie, limitare fino a azzerarne le conseguenze per gli autori dei danni, metterne a carico dello Stato il pagamento, rateizzando ed escludendone, in caso di recidiva, la rivalsa.
La certezza dell’impunità così indirettamente – ma sostanzialmente – sancita, contribuì definitivamente a fare dei magistrati una casta, che poi, nell’evoluzione delle vicende socio-politiche italiane, si è trasformata nell’unica casta ad oggi sopravvissuta ed attiva, capace di condizionare con la sua azione, con le sue scelte e decisioni, l’andamento generale del Paese, fino al punto che viviamo una tale inversione di ruoli che al sacro principio di innocenza si è andato sostituendo la regola del potenziale colpevole, con l’onere della prova contraria a carico della difesa, piuttosto che, come deve essere, dell’accusa.
E non è solo questa l’anomalia che imporrebbe quella “Riforma della Giustizia” che oggi il governo Meloni prova ad avviare.
Prova ad avviare, perché in tema di giustizia ancora molto c’è da fare!
Ad esempio, altro elemento fondamentale e sempre meno rinviabile, rimane la necessità di eliminare quella che è una peculiarità dell’ordinamento giudiziario italiano rispetto a quelli di tutte le altre liberal-democrazie occidentali: la possibilità per il singolo magistrato di passare dalla funzione giudicante a quella requirente, vale a dire la mancanza di separazione delle carriere. È impensabile che, da un giorno all’altro, chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere, pur essendo indagato o imputato da un ex collega di funzioni… eppure in Italia è possibile: accade.
Vietare, quindi, la possibilità di passaggi tra l’una e l’altra funzione è condizione essenziale per riequilibrare i poteri delle parti processuali e serve – non è un paradosso, anzi… – per restituire indipendenza e forza al giudice.
Rimane ancora un’altra questione aperta e che, proprio nel ricordo di Enzo Tortora, così come avverrà il 21 giugno a Vibo Valentia, non può e non deve essere trascurata: l’importanza della riduzione dei tempi di custodia cautelare, perlomeno per i reati meno gravi, nonché del potere della magistratura nell’applicazione delle misure cautelari personali per quei casi tassativamente previsti dal legislatore, previa modifica dell’articolo 280 del codice di procedura penale.
Infine, a dispetto di chi stuzzica pericolosamente le corde dell’intransigenza, del moralismo d’accatto, dei forcaioli di piazza, una società matura ed evoluta deve pensare all’introduzione di meccanismi in grado di garantire una reale ed efficace protezione dell’imputato, del principio di umanizzazione della pena e del suo fine rieducativo, assicurando al detenuto un’adeguata tutela laddove può accadere che vi siano atti lesivi dei suoi diritti.
Con l’incontro di questo mercoledì 21 giugno, Vibo Valentia, città che non a caso Enzo Tortora scelse quale piazza di uno dei suoi discorsi quando si candidò con il Partito Radicale (del quale fu anche Presidente) al Parlamento Europeo (fu eletto il 14 giugno 1984 con oltre mezzo milione di preferenze… anche con il mio voto!), torna, grazie agli autorevoli ospiti chiamati per l’occasione, protagonista di un dibattito dai giusti torni liberali. Così come auspicabile, in questo modo onorando degnamente la memoria di un uomo – Enzo Tortora, appunto – morto anzitempo perché ucciso da falsi moralisti forcaioli e da una giustizia malata di protagonismo; protagonismo che fa il male soprattutto di quella magistratura che con il suo quotidiano sacrificio opera a garanzia dei cittadini perbene. Che – a dispetto di forcaioli e giustizialisti – sono ancora la stragrande maggioranza.