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Dantedì 2024. Rileggendo il Sommo Poeta, riflettendo sull’attualità della Divina Commedia

Leggendo il poema dantesco, non si esce mai dall’Inferno una volta che ci si è entrati. Ripensando a Paolo e Francesca… e ad Ulisse

di Maurizio Bonanno

Era il 19 giugno del 2017 e il giornalista e scrittore Paolo Di Stefano, in un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera, scriveva che in Italia non c’era una giornata dedicata al Sommo Poeta, come invece avveniva in altri Paesi per autori celebri (ad esempio il Bloomsday, la commemorazione che si tiene ogni anno a Dublino per ricordare l’irlandese James Joyce). Passano due anni e il nome DanteDì arriva in occasione di un incontro tra lo stesso giornalista e il linguista Francesco Sabatini, per cui il 4 luglio del 2019 a Milano, viene proclamata la nascita della giornata dedicata a Dante Alighieri, ma bisognerà aspettare l’anno seguente, per avere l’ufficializzazione della data, con l’allora ministro della Cultura Dario Franceschini che propone la direttiva per istituire il DanteDì, approvata dal consiglio dei ministri il 17 gennaio del 2020.

La data non viene scelta a caso e si ricollega a quanto da sempre si narra, ovvero che il 25 marzo del 1300 ebbe inizio il viaggio che ha dato vita alla Divina Commedia. Fu proprio in quel giorno che il Sommo Poeta si ritrovò in una selva oscura, avendo smarrito la diritta via. Qui incontrò Virgilio e iniziò il viaggio con lui attraverso Inferno e Purgatorio, prima di giungere in Paradiso da Beatrice.

Da questo momento, il 25 marzo rappresenta l’occasione per riflettere con attenzione su Dante e soprattutto sulla Divina Commedia, opera che è fondativa della nostra cultura non solo letteraria e non solo italiana – il Dantedì viene celebrato anche in Francia, Svizzera e Argentina. Un’opera che è radicata nei primordi stessi della letteratura ed è asse sempre più portante nella coscienza generale della nostra civiltà avendo segnato lo stile della lingua italiana e l’unità culturale del nostro Paese, non trascurando il fatto che la Divina Commedia è un testo letterario che non perde di attualità: le riflessioni di Dante sui comportamenti umani, gli exempla forniti, le letture politiche ancora lasciano spazio a molteplici contestualizzazioni.

Al termine di una Giornata caratterizzata da innumerevoli iniziative ed interventi vari, proviamo ad accennare una piccola riflessione su una parte della principale opera dantesca. Perché è indubbio che della Divina Commedia l’Inferno sia, a torto o a ragione, la cantica più letta, quella sulla quale – evidenzia Piero Boitani – gli interpreti più diversi – da De Sanctis a Croce a Contini, da Ezra Pound a T.S. Eliot, da Osip Mandel’štam a Seamus Heaney, da Erich Auerbach a Charles Singleton a John Freccero – sono all’unisono più concordi nel non lesinare aggettivi di lode.

L’Inferno presenta una serie impressionante di storie e personaggi che restano impressi nella nostra memoria: Caronte, Pluto, e Minosse, i tre “guardiani”; Paolo e Francesca, vittime d’Amore, dalla vicenda così struggente che ciascuno di noi almeno una volta nella vita vi si è identificato; Farinata e Cavalcante, insieme sepolti in un avello ardente; Pier delle Vigne trasformato in rovo vivente; Brunetto Latini sotto la nevicata di fuoco; e poi Ulisse e Guido da Montefeltro, i due frodolenti (quante ispirazioni ha suggerito la figura di Ulisse!); e infine Ugolino, il traditore tradito, nella ghiaccia di Cocito. Il paesaggio stesso, avvolto nel buio senza sole e senza stelle, amplifica il dolore sempre più intenso, la pena sempre più grave, la condanna eterna.

Non si esce mai dall’Inferno una volta che ci si è entrati ed a nulla vale il passare degli anni ed il susseguirsi di esperienze personali. Persino Virgilio lo sa, benché relegato in quel Limbo relativamente esente da torture, e lo dice in un verso agghiacciante: «che sanza speme vivemo in disio», senza speranza viviamo nel desiderio di Dio, che mai vedremo.

L’Inferno vive fra tradizione pluricentenaria e novità, offrendo ancora oggi la possibilità di intuizioni originali, di una rilettura con accenti nuovi, insinuando ipotesi innovative, per esempio mettendo in relazione la “selva oscura” all’inizio dell’Inferno con la «divina foresta, spessa e viva», in cima al Purgatorio.

Il Sommo Poeta ci concede l’eventualità di scoprire un particolare tra le pieghe dei suoi versi permettendo nuovi approcci.

Su due in particolare mi permetto di soffermarmi.

Inferno V, la storia di Paolo e Francesca che sempre ci coinvolge e ci intenerisce con la celebre tripla ripetizione di «Amore» da parte di Francesca: che cita Guinizzelli e Andrea Cappellano («Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende»; «Amor ch’a nullo amato amar perdona»). Quando Dante domanda «a che e come» Amore abbia tradotto queste enunciazioni generali in eventi, Francesca racconta della lettura compiuta da lei e da Paolo della vicenda d’amore romanzesca tra Ginevra e Lancillotto, che turba entrambi sino al punto che, quando leggono il «disiato riso» della regina «esser baciato da cotanto amante», Paolo, tremando da capo a piedi, bacia la bocca di Francesca. Mentre l’emozione avvolge il lettore, Dante chiude la storia facendo dire a Francesca: «Quel giorno più non vi leggemmo avante».

Storia potente di desiderio e dolore, di amor cortese (Guinizzelli) e di amor sensuale (la «bella persona», «piacer sì forte»), di amore e morte, la vicenda dei due è stata naturalmente vista in modi talvolta opposti, da coloro che condannano i protagonisti (che Dante in effetti condanna all’Inferno) e da coloro che li salvano in nome della pietà (e Dante, in effetti, viene meno dalla pietà al termine del racconto).

E poi, Ulisse.

Nella memoria resterà la rievocazione di Ulisse, appassionata e tesa fra gli estremi del «mettersi» per «alto mare aperto» e i confini che l’esplorazione umana del conoscibile pure deve avere nell’etica (nella «virtù»). Ulisse, il Vecchio Marinaio del Medioevo, l’antenato dell’uomo moderno: la cui fiamma è «antica» quanto quella dell’amore del Sommo Poeta per Beatrice, ed esattamente opposta, come l’inversione segnala, alla medesima: «lo maggior corno de la fiamma antica», «conosco i segni de l’antica fiamma».

Dante condanna Ulisse all’Inferno collocandolo nell’ottava bolgia, tra i consiglieri fraudolenti, pur riconoscendogli una certa comprensione umana per quanto di grandioso possa esserci nella sua impresa. L’Ulisse di Dante è, rispetto a quello di Omero, ancora più utopico e desideroso di sperimentare nuove esperienze e conoscenze e non teme, pur di viverle, di affrontare qualsiasi pericolo.

Ulisse è una specie di specchio negativo di Dante. Dal punto di vista della conoscenza, entrambi sono degli eroi, degli scopritori. Tuttavia Dante è, per così dire, un esploratore approvato da Dio, mentre Ulisse è un ribelle, un temerario che osa imporre la propria volontà agli dèi. Il Sommo Poeta sente vicina alla propria l’esperienza di Ulisse (che può rappresentare quella dei filosofi laici che – come lo stesso Dante giovane – si lasciarono tentare da una conoscenza che fosse del tutto indipendente dal valore della fede religiosa).

Per Dante, il “folle volo” rappresenta la volontà di superare i limiti della conoscenza umana; la follia di Ulisse non consiste nella ribellione personale contro un ordine prestabilito, bensì nel tentativo di superare i limiti della finitezza dell’essere umano. Ma il peccato di Ulisse, oltre essere quello di aver provocato con le sue menzogne dolore e sofferenza, nasce anche dall’aver portato all’eccesso le sue virtù, confidando in esse senza il sostegno della Grazia divina, e volendo farsi simile a Dio stesso.  La follia consiste nella dimenticanza di essere una semplice creatura, esaltando la propria intelligenza al punto di trasformare ciò che è positivo (il desiderio di seguire virtute e canoscenza) in un’irragionevole negazione dell’esistenza di ogni limite. Dalla “mela” del giardino dell’Eden a Prometeo che dona il “fuoco divino” agli uomini, l’Uomo “pecca” contro Dio-Zeus, “pecca” contro la Natura-Dio, che non può più soggiogare l’Uomo e dalla quale l’Uomo si affranca potendola conoscere, capire ed in parte dominare. Insomma, il “Peccato” è l’essenza Divina dell’Uomo.

Quanto abbiamo ancora da scoprire! Quanto ancora Dante può suggerire all’Uomo di oggi!

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