Il Maestro dei telecronisti sportivi se n’è andato pochi giorni prima di compiere i suoi 87 anni. Una voce ed uno stile inconfondibile, competente e professionale
di Maurizio Bonanno
Se c’è, tra le tante possibili, una spiegazione che sia utile a far capire come si è potuto coltivare il successo popolare dello sport più seguito in Italia, sicuramente e inevitabilmente si deve prendere in considerazione il racconto; ovvero, come alcuni grandi professionisti abbiano raccontato il calcio trovando modalità di espressione coinvolgenti, indimenticabili. Non c’è dubbio che molto, tanto, lo si deve alla penna di giornalisti straordinari come Gianni Brera, la cui cronaca era letteratura, così come Giani Mura e Giorgio Tosatti; ed anche colui che posso orgogliosamente definire uno dei miei Maestri, Domenico Morace, grazie al quale tanto ho appreso negli anni in cui mi volle al suo fianco come caporedattore a Il Domani della Calabria, da lui diretto.
Ma la lettura dei giornali aveva un limite: era un’informazione, certamente a quei tempi, selettiva: non a tutti arrivava. La radio prima e soprattutto la televisione resero la cronaca di una partita di calcio alla portata di tutti. E, se con la radio il compito del cronista era quello di dipingere la partita, di mostrarla attraverso la sua descrizione, con la televisione il compito era diventato, paradossalmente, più gravoso. Al telecronista spettava il compito di mediare tra l’immagine vista da tutti e la descrizione che serviva da completamento, da informazione in senso puro, da interpretazione dei fatti che accadevano in campo per aiutare il telespettatore a capire e vivere la partita in senso completo.
Si tratta di un aspetto non percepibile e per questo meno considerato, che è invece fondamentale. Lo era soprattutto ai tempi in cui la telecronaca spettava al solo giornalista, senza essere affiancato dall’esperto di turno (ex calciatore o allenatore), senza il supporto di competenti in studio, di inquadrature personalizzate, replay ad ogni pie’ sospinto e… var! Lo è stato per chi, come me, si è cimentato nel ruolo di telecronista in partite di periferia, nelle serie inferiori, dove ancora oggi i limitati mezzi a disposizione obbligano il giornalista a quel ruolo completo e necessario per il telespettatore che da casa segue la partita: ma quanta bellezza, quanto fascino in questo mestiere!
Per la generazione dei “no var”, dei “non esperti”, per quelli che hanno vissuto la telecronaca del secolo scorso, era questo il ruolo ed il compito del telecronista. E i grandi eventi – le partite della Nazionale, le finali di Coppa, le gare internazionali – erano appannaggio di pochi.
L’Italia della Nazionale, dei Mondiali e delle finali delle Coppe europee hanno vissuto l’epopea più intensa grazie alla professionalità di quelli che, senza esagerarem si possono definire i “Tre Tenori”, indimenticabili: Nicolò Carosio, Nando Martellini, Bruno Pizzul.
Dei tre, non c’è dubbio che il più competente fosse proprio Bruno Pizzul.
Se Nicolò Carosio è il Maestro dei Maestri, il primo assoluto, un’icona imperitura. Se Nando Martellini è stato il cantore dell’era del passaggio da un’epoca all’altra. Bruno Pizzul è colui che ha coniugato la conoscenza diretta (era stato calciatore) ad una competenza frutto di studio. E dei tre è stato il meno fortunato. Perché Carosio ha potuto annunciare per ben due volte la frase più bella: “Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!”, nel 1934 e nel 1938 (era ancora in radio) e Nando Martellini lo ha gridato dal Bernabeu di Madrid nel 1982, stessa felice sorte non è toccata a Bruno Pizzul, testimone e narratore del rigore di Baggio che nel 1994 diede il titolo di campioni del mondo ai brasiliani, testimone e narratore delle “notti magiche” del ’90, degli occhi spiritati di Schillaci, di quelle “notti magiche” che si interruppero nella semifinale di Napoli.
L’ultimo dei “Tre Tenori” del calcio italiano, dunque, se n’è andato!
Storica ed inconfondibile voce del calcio, per oltre 33 anni è stato il telecronista di punta della Rai commentando le principali partite, soprattutto quelle della Nazionale: dalla Coppa del Mondo del 1986 ai cinque Campionati del Mondo e quattro Campionati Europei che si sono susseguiti fino all’agosto 2002 (Italia-Slovenia 0-1), quando è andato in pensione. Ha, inoltre, condotto la Domenica Sportiva e Domenica Sprint.
Nato a Udine l’8 marzo del 1938, da giovane studente si era dedicato al calcio militando nella Cormonese e nella Pro Gorizia per poi approdare al professionismo, nel ruolo di centromediano, con il Catania nel 1958 avendo indossato anche la casacca dell’Ischia, dell’Udinese e della Sassari Torres, prima di essere costretto ad appendere le scarpette al chiodo per un infortunio al ginocchio.

Nella sua carriera di giornalista aveva fatto della sobrietà il suo stile, tant’è che ha sempre ammonito i colleghi che si abbandonano a commenti animati. «I telecronisti di oggi – ha, infatti, dichiarato in un’intervista – sono bravi, ma parlano troppo».
Eppure, toccò a lui dover parlare tanto. Perché toccò a lui la telecronaca più drammatica del calcio, non solo italiano. La sua telecronaca più dolorosa fu quella del 29 maggio 1985, la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool nello stadio dell’Heysel nel quale 39 persone morirono schiacciate negli scontri tra tifoserie prima dell’inizio della gara.
Quella telecronaca è un pezzo di giornalismo da tenere sempre presente. Fu il suo, seppur triste, capolavoro. A mio avviso, il modo di affrontare e svolgere il racconto dei quei drammatici fatti fu impeccabile per sobrietà e compostezza. In un’epoca in cui ancora non c’erano cellulari né social network, ogni sua parola in quelle ore terribili pesava come un macigno e PIzzul seppe trovare il modo di assolvere al meglio questa sua responsabilità, che era enorme. Fu, il suo, un racconto meticoloso e giornalisticamente impeccabile. Basta andare su YouTube per rivederlo e trarne ancora oggi una lezione.

D’altronde, Pizzul era così: quando si ascoltava una sua telecronaca era impossibile non rimanere ipnotizzati. Non solo per il suo timbro, ma anche per la sua preparazione, per la sua meticolosa conoscenza di ciò che stava raccontando, senza mai un accenno di presunzione, di enfatizzazione, ma sempre con passione, con misurato trasporto.
Dei “Tre Tenori” fu quello che non riuscì a dire “Campioni del Mondo”, ma è quello che ricorderemo come un “Grande Campione” dei telecronisti sportivi.