Giuseppe Mazzini nel suo saggio “Dell’amor patrio di Dante” lo descrive come “primo patriota e convinto europeista”
di Maurizio Bonanno
Si suole dire che nulla accade per caso. E sarà vero!
Mai come quest’anno, il Dantedì, la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, che da qualche anno si celebra in Italia ogni 25 marzo, cade in un momento di fibrillazione (pseudoculturale).
A noi, che amiamo Dante e, finché ci sarà possibile, lo racconteremo esaltandone non solo le geniali doti artistico-letterarie, ma anche e soprattutto la straordinaria attualità, è sembrato interessante, forse utile, una riflessione a proposito del Dante “primo patriota e convinto europeista”.
A dirlo è stato Giuseppe Mazzini!
Ed è consolante ricordarlo, noi che ci sentiamo, per scelta culturale, vicini all’ideale mazziniano.
Tutti risale al 1826, quando, appena ventunenne, Giuseppe Mazzini scrive il saggio “Dell’amor patrio di Dante”, che invia anonimamente alla fiorentina “Antologia”, che però non lo pubblica.
Va detto che allora, il futuro creatore della Giovine Italia, era ancora uno studente che, terminati gli studi al liceo classico Cristoforo Colombo di Genova, si era iscritto alla facoltà di medicina, lasciandoli subito dopo il primo svenimento davanti al tavolo anatomico. Intrapreso, quindi, il cammino della legge, studiando i codici riuscì a farsi arrestare per la prima volta a venticinque anni per essersi ribellato alle prepotenze dei cadetti reali. Ma nel frattempo il figlio di due genitori dagli ardenti ideali repubblicani, aveva affondato la sua testa nella grande letteratura liberale europea, cominciando a scalpitare sugli scritti di Byron, Goethe, Hugo, Shakespeare. E, naturalmente, Dante.
È solo nel 1838, nel giorno del suo trentatreesimo compleanno, che la madre, Maria Giacinta Drago, gli comunica, mentre lui è a Londra, che il suo scritto dantesco è stato editato dal torinese “Subalpino”. Mazzini capisce che a perorare la pubblicazione del saggio è stato Niccolò Tommaseo, prima collaboratore della “Antologia” e poi del “Subalpino”.
Lo scritto nasce come replica all’accusa rivolta a Dante «d’intollerante e ostinata fierezza, e d’ira eccessiva contro Fiorenza».
Mazzini, intervenendo su una materia che non tarderà a farsi bollente, senza offendere nessuno, enunciava un criterio di profonda saggezza, quello del relativismo delle visioni politiche: Dante aveva giudicato Fiorenza come poteva vederla nel contesto dell’epoca e nella sua considerazione di esule perpetuo. Cosa che non gli impedì, come sottolinea Mazzini, di manifestare il suo amore per una patria che non era la città dell’Arno, ma l’Italia tutta.
Insomma, Mazzini afferma che per comprendere, per poi giudicare, le opere degli autori del passato bisogna cogliere il contesto in cui sono state scritte. Messaggio di incredibile attualità, se si pensi a quanti manipolatori di testi oggi si affollano leggendo con l’occhio attuale ciò che è stato scritto in epoche passate decontestualizzandone il contenuto (vale anche per il Manifesto di Ventotene?!).
Scrive Mazzini: «Uno è sempre l’amor patrio nella sua essenza e nel suo ultimo scopo», ma, «come tutti gli affetti umani subisce varie modificazioni, e veste forme diverse secondo che mutansi le abitudini, le costumanze, le opinioni religiose, e civili, e le passioni degli uomini che costituiscono questa patria, all’utile della quale si mira».
Per Mazzini, dunque, col variare delle necessità della patria, devono variare anche i mezzi necessari per soddisfarle: «Ne’ bei tempi della romana repubblica il vero amor patrio era quello di Cincinnato; Bruto mostrò qual fosse sotto i principii della tirannide; Cocceo Nerva insegnò agli uomini qual alta prova rimanga darsi all’amor patrio, quando la servitù è irreparabile».
Secondo Mazzini il tredicesimo secolo italiano, nel bene e nel male, offre tutto ciò che la storia successiva del mondo intero avrebbe offerto. Il Belpaese è attraversato da irrefrenabili energie e forze tali che, se volte a realizzare un unico scopo, riuscirebbero a unire, rendere indipendente e affrancare dal giogo straniero l’Italia.
La discordia atavica, l’ambizione, gli interessi stranieri, la corruzione e la mancanza di una “guida” che incanali il vigore delle genti italiche verso il bene comune, fa sì che «il flagello dell’anarchia ogni cosa percoteva».
Questo è il tempo in cui Dante «menò la dolorosa sua vita» rivolgendosi agli italiani con parole di fuoco e di sdegno provocate dalle disgrazie della sua amata patria, dai malvezzi e dalle colpe tramandati nei secoli. Come gli profetizza Cacciaguida nel Paradiso, «coscïenza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna».

Dante è schierato politicamente con i guelfi “bianchi”, per cercare di liberare Firenze dalla asfissiante presenza della Curia romana («là dove Cristo tutto dì si merca»; paradiso c. XVIII) che, con Bonifacio VIII, vuole mettere la città gigliata sotto il tallone dei Neri. Papa Caetani manda Carlo di Valois a rovesciare il Governo “bianco”, e fa condannare il Vate al confino. L’Alighieri, non riconoscendo il tribunale, non si presenta per difendersi, scegliendo così la via dell’esilio. Condannato al rogo, non tornerà mai più a Firenze.
Dante continua con le sue reprimende che vengono rigettate dai destinatari, «come da’ fanciulli la medicina»; però non gli interessano le caduche lusinghe dei contemporanei, bensì la riconoscenza dei posteri. Questo concetto lo esprime nel XVII canto del Paradiso quando afferma di aver timore, tacendo la dura e sgradevole verità, di non essere ricordato dalle generazioni future («e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico»).
Dalle opere del Sommo Poeta appare chiaro il suo amore per la patria, che non è solo Firenze ma tutto il Bel Paese dove il sì suona. Ed è sempre Mazzini ad evidenziarlo: «Egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora la minacciava più che mai».
Dante, nell’affermare che la vera lingua italiana non è il toscano, il lombardo o qualsiasi altro dialetto, «si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare, e predice a questa verginella modesta, ch’egli educava a più nobili fati, glorie e trionfi sull’idioma latino, ch’era ormai sole al tramonto».
Mazzini, inoltre, si appella agli italiani affinché studino Dante, in modo da potere apprendere da lui: «Come si serva alla terra natia, finchè l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura».
Questo appello è attualissimo anche oggi, in un momento in cui la Patria è aggredita da nemici esterni e interni, che molto hanno tolto, ma «nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitù potè struggere i nomi e i monumenti».
«Ogni fronda del lauro immortale, che i secoli posarono sui loro sepolcri, è pegno di gloria per noi; né potete appressare a quella corona una mano sacrilega, che non facciate piaga profonda della terra che vi die’ vita».
Quel che rende interessante il giovanile interesse di Mazzini intorno a Dante è l’attenzione che il genovese riserva alle altre produzioni dantesche messe in ombra dalla proiezione della Commedia, ovvero il “De Volgare Eloquentia”, il Convivio e, di capitale importanza, il De Monarchia (1310), un trattato di politica nel quale Dante cerca di spiegare perché l’Europa, per sopravvivere alla cupidigia delle nazioni che vanno formandosi proprio in quegli anni, dovrebbe affidarsi ad un governo “universale”.
Dante sostiene che la monarchia “universale” serva meglio di ogni altro regime al benessere del mondo e all’umana felicità, poiché essa sola è in grado di garantire la quiete e la tranquillità dello stato di pace sulla base del ragionamento “non c’è niente che il monarca possa ancora desiderare, perché la sua giurisdizione è delimitata soltanto dall’oceano”.
È affascinante osservare, dunque, come l’Europa dantesca, che, sia chiaro, è anche un’Europa dello Spirito, trascendentale e non solo una visione storica, è un arazzo, ordito di fili e colori diversi, dove molte radici europee vi sono onorate. Certo non tutte in modo uguale, e con limiti legati al proprio tempo, ma l’Europa dantesca non è senza Virgilio e la cultura classica, quella greco-latina; non è senza il frammento germanico e l’influenza bizantina (Dante fu ravennate negli ultimi suoi anni); non è senza le teologie cristiane (che per Dante sono plurali, diverse tra loro: per questo il Poeta arriva a tenere insieme, ad esempio, istanze della Grande Chiesa con il frammento cataro, Egli che un Fedele d’Amore!), ma onora, pur se in modi complessi e più nascosti, l’escatologia islamica, un certo ebraismo mistico (possibili influenze dalla qabbalah sul poema sacro) ed altro ancora.
In Dante si esprime un complesso pluralismo inter-intra-culturale, certo non privo di tensioni, condizionamenti e contraddizioni, ma reale.
L’Europa di Dante è fatta di poesia, di arte e bellezza, di politica, di teologia, di filosofia, di interiorità e concretezza, come pure gli spiriti magni che abitano il «nobile castello» del limbo o le ghirlande dei beati ben ricordano
Certo, a Dante non restava che rifarsi politicamente all’ovvio modello storico rappresentato dall’Impero romano, ma il simbolo dell’Impero richiama in Dante essenzialmente altro: si tratta di un’entità sovranazionale (mai in alcun modo un imperialismo, un Reich!), una diarchia che onori tanto il potere politico quanto quello spirituale. Solo così può venirne la «pace universale», come Dante dice nel Convivio. Per altro, la diarchia dantesca non sopprime al suo interno lingue e soggettività diverse: l’Italia rimane ad esempio il «giardin de lo ’mperio». (Pg VI, 105).
Questo sogno dantesco medievale è l’immagine di una Europa unita sovranazionalmente, che però contiene ed onora le sue singolarità. È universalistica (anche perché teoricamente più grande dell’Europa, non riducibile ad essa) ed insieme concreta, particolare. Non è fondata solo sul mito del mercato, o solo su una moneta unica, ma su un principio spirituale e unopolitico, ben distinti ma anche collaboranti.
Che Dante chiami questi due simboli papato e imperatore, la croce e l’aquila, è legato naturalmente allo spirito del suo tempo. I simboli cambiano e vanno reinventati e rivissuti.
Ed è per questo che Dante è da considerarsi un “federalista” ante litteram: aveva capito che la miccia della guerra è nel desiderio di invadere ed occupare territori e risorse con la prevaricazione e solo uno sguardo politico sovranazionale avrebbe salvato il mondo dalle violenze, allora come ora.
Ed infatti, Dante fu testimone del crollo delle potenze “universali” del suo tempo, la Chiesa e l’Impero germanico, in lotta fra loro per la supremazia identitaria dell’Occidente.
Corsi e ricorsi storici, direbbe Giambattista Vico.