Amare riflessioni di chi, mite ma fermo, resiste… e prova vergogna per gli svergognati!
di Maurizio Bonanno
C’era una volta la vergogna. Era una sorta di palude per la quale il rischio di imbattersi era sempre presente. Risiedeva anche qui, nella nostra città.
Vergogna! Intimavano i genitori per una piccola marachella e, rossi in faccia, se per sbaglio ci finivamo dentro, tutto avremmo fatto per sottrarci a sguardi e giudizi: ci nascondevamo… per la vergogna, appunto.
Vergogna; era il profondo senso di umiliazione che ci travolgeva quando… Già, quando?
C’era una volta la vergogna, che abitava anche nella nostra città… e poteva avere effetti paralizzanti e costringeva a lunghi percorsi interiori per ritrovare serenità e sicurezza.
C’è ancora, da qualche parte però, perché nella nostra città non sembra avere più residenza; da tempo sembra avanzare e prevalere il suo opposto, l’assoluta mancanza di vergogna, a cominciare dall’ostentazione dell’arroganza, dell’ignoranza.
Non hanno vergogna i politici che fanno promesse roboanti, ma non le mantengono e quando viene loro fatto notare sbraitano offesi, anziché chiedere scusa vergognosamente, la coda tra le gambe. E a scuola il ragazzino non si vergogna per il brutto voto – non ha studiato, è ignorante – e, anziché vergognarsi, manda i genitori a ringhiare dall’insegnante. Così accade che chi non dovrebbe vergognarsi si vergogna, e chi dovrebbe vergognarsi invece sghignazza. L’incoerenza è promossa a virtù e non ci si vergogna più.
Speranza di salvezza? Sì, se proviamo noi vergogna per gli svergognati. E, miti ma fermi, resistiamo.
Quando nel 1995 il sociologo Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un’altra sezione della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite”, pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna.
Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava essere un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta.
Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica, anche tra noi. Anche in questa città.
Nessuno prova più vergogna. Oggi si assiste al rovesciamento semantico del concetto «Ci metto la faccia», che è l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.
Perché l’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali” ed il problema è che ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.
Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populistica nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo.
Nell’età del narcisismo di massa, ognuno fa per sé stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale.
La vergogna è senza dubbio uno dei sentimenti più umani che esistano. Ma la vergogna è un lusso, è impegnativa. Molto meglio professare l’ipocrisia.
Trasportati dal desiderio di accettazione sociale, molte persone sentono la necessità di conformarsi alle aspettative sociali o ai valori dominanti del loro gruppo di riferimento o della società in generale.
In alcune società o gruppi, inoltre, l’adesione a certi principi morali può essere così importante che le persone si sentono costrette a mostrare un allineamento pubblico, anche se privatamente non si aderisce a tali norme. La paura del rifiuto o delle ripercussioni può essere un fattore importante alla base dei comportamenti ipocriti.
Alcune persone, infatti, potrebbero non essere pienamente consapevoli di mettere in atto comportamenti ipocriti, semplicemente perché non esplorano in profondità sé stessi e le proprie motivazioni.
In contesti altamente competitivi o ostili, inoltre, l’ipocrisia può diventare uno strumento di sopravvivenza, che consente alle persone di affrontare le complessità delle interazioni sociali mantenendo al contempo i propri interessi.
Ecco, appunto, i propri interessi, che prevalgono rispetto al bene comune. Il proprio interesse, che è prioritario riguardo al rispetto della “cosa pubblica”, all’agire per il “bene comune”.
E così, se vai lì dove sapevi che un tempo abitava la vergogna, scopri che non c’è più, è andata via, ha lasciato questa città: scopri che adesso lì si è trasferito qualcuno che prima non risiedeva qui, che adesso ci abita l’ipocrisia!