Trentatré anni fa la strage di Capaci
di Alberto Capria
Ci sono commemorazioni che oltre a servire a non far dimenticare, riescono ad incidere nella pietra un ricordo che, allo stesso tempo, sollecita le nostre coscienze e ci indica la strada da seguire. Sono quelle che costituiscono un momento essenziale per organizzare un quadro di riferimento stabile e condiviso, che oltrepassi saluti istituzionali e prolusioni, mostre e video celebrativi.
Sono trascorsi trentatré anni dalla strage di Capaci, in cui furono trucidati Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Montinaro, Dicillo e Schifani. A distanza di poco meno di due mesi – 57 giorni – Paolo Borsellino e la sua scorta (Loi, Cosina, Catalano, Li Muli, Traina) vennero uccisi con le stesse modalità in Via D’Amelio. Definire disdicevole la superficialità degli apparati dello Stato – dopo l’eccidio di Capaci e dopo che lo stesso Borsellino aveva pubblicamente dichiarato che il tritolo per lui era arrivato – è benevola locuzione.

Quei terribili fatti non lasciano spazio a divisioni, conflitti, contrapposizioni politiche, culturali e sociali; lasciano un’eredità totalizzante che ci appartiene.
Dopo il trauma di quei 57 giorni 23 maggio/19 luglio del 1992, fu avviata una fase – tardiva ma progressiva – di affrancamento dal silenzio e dall’indifferenza.
Le storie “gemelle” di Falcone e Borsellino – dal quartiere di nascita al Liceo, dall’Università alle Procure, dalle invidie ai soprusi che incredibilmente dovettero subire fino alla loro uccisione – hanno moltiplicato negli anni sentimenti di fierezza e condivisione per il coraggio e la grande dedizione dei due magistrati che, riprendendo una loro frase, hanno fatto fino in fondo il loro dovere.
Il nostro compito, oltre a quello prioritario di tenere viva la scintilla del ricordo e non permettere che si spenga con il passare del tempo, è quello di diffondere quotidianamente un promemoria di educazione civica che divenga straordinaria occasione per segnare la distanza con il passato mafioso stragista e per disegnare orizzonti di senso nuovi, ma sempre ancorati allo stato di diritto.
La risposta al crimine deve passare da un’ampia rete educativa, che veda la Scuola in prima fila nella sua istituzionale e strategica attività di “seminare” erba buona per togliere aria e terra alla “malapianta”, ancora prima e con più valore di compiti, test standardizzati, transizioni, verifiche ed altri inutili orpelli.
Le mafie, prima di essere organizzazioni, sono mentalità sottesa alla società: è per questo che la lotta passa soprattutto dai banchi di scuola.
Solo così onoreremo le vittime delle stragi di mafia, compiendo fino in fondo il nostro dovere, costi quel che costi; “solo così – citando la parte finale della requisitoria di Giuseppe Ayala al Maxiprocesso di Palermo – senza violenze e lotte il diritto vincerà sul delitto, la democrazia e la civiltà sulla barbarie”.