Sarebbe bello e auspicabile che Vibo Valentia, città che Tortora scelse di visitare anche da candidato al Parlamento Europeo, lo ricordasse intestandogli una via quale vittima in nome della Libertà
di Maurizio Bonanno
Alle 4 di notte del 17 giugno 1983 Enzo Tortora, con un blitz a favore di telecamere compiacenti, fu tratto in arresto dai Carabinieri che gli notificarono l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di tipo camorristico.
Le accuse si fondavano unicamente sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Pandico e Pasquale Barra, rivelatesi in seguito inattendibili. Nonostante l’assenza di riscontri oggettivi, nel 1985 il conduttore fu condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. Tortora, nel frattempo eletto al Parlamento europeo, rinunciò all’immunità per affrontare il processo. Il 15 settembre 1986 fu assolto con formula piena in appello e la sentenza fu confermata dalla Cassazione nel 1987.
Quel 17 giugno 1983 si consumò un “orrore” giudiziario dai risvolti terribili. Enzo Tortora era alla guida di Portobello, quando fu arrestato e ingiustamente accusato di associazione camorristica e traffico di droga da condannati di mafia e testimoni non attendibili.
Quarant’anni fa, quel 17 giugno 1983, ero già maturo abbastanza, già convinto a quei principi liberali e liberisti ancora oggi a me presenti e per me distintivi, per non ricordare quei fatti incredibili quanto terribili.
Quando Enzo Tortora venne finalmente assolto con formula piena, apparve fiaccato dalla vicenda, stanco e già malato, fino a morire due anni dopo: quella morte avrebbe dovuto pesare sulla coscienza di chi, ai vari livelli, gestì la vicenda con quell’enfasi mediatica, che ha poi fatto scuola e grazie alla quale oggi in Italia si assiste ad una giustizia che si sviluppa su 4 gradi di giudizio, il primo dei quali è gestito in via esclusiva dalle procure che inscenano un processo mediatico sulla base dei loro teoremi senza che la difesa possa avere voce in capitolo e con danni il più delle volte irreparabili per chi ne rimane ingiustamente vittima.
Tutto questo è possibile perché – al di là di qualunque siano le conclusioni del reale iter processuale, a prescindere dalla consistenza delle prove acquisite a supporto delle tesi accusatorie – il magistrato è esonerato da ogni responsabilità diretta della sua attività professionale, qualunque siano le conseguenze a danno di imputati ingiustamente accusati e caricati sulla gogna mediatica da certo giornalismo (ma si può chiamare così? È giornalismo? È giornalismo?) che si pasce di beceri moralismi un tanto al chilo ignorando la presunzione di non colpevolezza che è sancita dalla Costituzione, perché prevenuti e imbevuti di cultura giustizialista.
“Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. Con queste parole, pronunciate davanti ai giudici, Enzo Tortora, si congedò da un processo che avrebbe dovuto restituirgli la dignità. Parole come pietre e come tali rimaste impresse nella memoria collettiva a ricordare quella ferita che, per lui ma in realtà per il Paese tutto, era già profonda e non si è ancora rimarginata. La sua vicenda è diventata il simbolo tragico e imperituro di una giustizia smarrita, travolta dal clamore, dai riflettori, dalla voglia di colpire.



Intanto, si preferisce dimenticare che in Italia si era celebrato, alcuni decenni fa, un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, con il quale una maggioranza schiacciante si espresse per il SI, ovvero perché anche magistrati, giudici e procuratori, fossero sottoposti – come tutti i dipendenti pubblici, come tutti i professionisti, come tutti gli automobilisti, come tutti i medici, insomma come tutti i cittadini – al principio che chi fa danno deve risarcirlo.
Questo dissero gli italiani, andando in massa alle urne e superando ampiamente il famigerato quorum – oggi famigerato, con questi referendum farlocchi che il quorum nemmeno lo sfiorano – ma all’indomani di quella consultazione, invece di dare corso ad ogni misura che assicurasse la puntuale esecuzione della volontà popolare, il Parlamento di allora, già indebolito e timoroso rispetto a certe procure, cedette ad una sorta di arzigogolato ricatto, dando mano alla redazione di una vera legge-truffa che “regolò” la responsabilità voluta e conclamata dal Popolo in modo da restringerla, condizionarla, “filtrarne” le richieste risarcitorie, limitare fino ad azzerarne le conseguenze per gli autori dei danni, metterne a carico dello Stato il pagamento, rateizzando ed escludendone, in caso di recidiva, la rivalsa.
La certezza dell’impunità così indirettamente – ma sostanzialmente – sancita, contribuì definitivamente a fare dei magistrati una casta, che poi, nell’evoluzione delle vicende socio-politiche italiane, si è trasformata nell’unica casta ad oggi sopravvissuta ed attiva, capace di condizionare con la sua azione, con le sue scelte e decisioni, l’andamento generale del Paese, fino al punto che viviamo una tale inversione di ruoli che al sacro principio di innocenza si è andato sostituendo la regola del potenziale colpevole, con l’onere della prova contraria a carico della difesa, piuttosto che, come deve essere, dell’accusa.
Il punto è che in tema di giustizia ancora molto c’è da fare!
Ad esempio, altro elemento fondamentale e sempre meno rinviabile, rimane la necessità di eliminare quella che è una peculiarità dell’ordinamento giudiziario italiano rispetto a quelli di tutte le altre liberal-democrazie occidentali: la possibilità per il singolo magistrato di passare dalla funzione giudicante a quella requirente, vale a dire la mancanza di separazione delle carriere. È impensabile che, da un giorno all’altro, chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere, pur essendo indagato o imputato da un ex collega di funzioni… eppure in Italia è possibile: accade.
Vietare, quindi, la possibilità di passaggi tra l’una e l’altra funzione è condizione essenziale per riequilibrare i poteri delle parti processuali e serve – non è un paradosso, anzi… – per restituire indipendenza e forza al giudice.
Ricordarlo oggi, ricordarlo qui a Vibo Valentia, città che culla nella sua storia millenaria il valore della libertà come bene supremo da difendere fino al sacrificio estremo (si pensi agli antichi hipponiati, a quei valorosi vibonesi che i Romani insignirono con il titolo di Valentia; si pensi ai Sette Martiri, a Diana Recco; ed ancora, a Michele Morelli; ai partigiani Papandrea e Cortese) significherebbe omaggiare Enzo Tortora e la Giustizia Giusta, contro moralismi e giustizialismi: omaggiarlo intestandogli una via di Vibo Valentia. Città che non a caso Enzo Tortora scelse quale piazza di uno dei suoi discorsi quando si candidò con il Partito Radicale (del quale fu anche Presidente) al Parlamento Europeo (fu eletto il 14 giugno 1984 con oltre mezzo milione di preferenze… anche con il mio voto!).
Sarebbe bello e auspicabile questo modo di onorare degnamente la memoria di un uomo – Enzo Tortora, appunto – morto anzitempo perché ucciso da falsi moralisti forcaioli e da una giustizia malata di protagonismo; protagonismo che fa il male soprattutto a quella magistratura che con il suo quotidiano sacrificio opera a garanzia dei cittadini perbene. Che – a dispetto di forcaioli e giustizialisti – sono ancora la stragrande maggioranza.