Come si fa a non smarrire il volto, il cuore, la carne nel tempo della virtualità e della distanza emotiva? Sei gesti possibili, sei piccole strade per essere uomini, credenti e fratelli
di don Danilo D’Alessandro
Ci sono notizie che non fanno più notizia.
Gaza è piena di bambini morti, ma nessuno si ferma più. Le immagini scivolano veloci sullo schermo, la nostra coscienza si difende, si assuefa, si anestetizza. La morte dell’altro – se lontana – non ci tocca più. Il dolore – se non ci riguarda direttamente – ci scivola addosso. Ci stiamo lentamente disumanizzando.
Eppure tra pochi giorni usciremo in processione. Da bravi cattolici, invocheremo Gesù, lo imploreremo di illuminare il nostro tempo, di consolarci, di salvarci. Ma basterà? Basterà se la nostra fede non riesce più a vedere il volto del Crocifisso nei bambini straziati di Gaza, nelle madri che non sanno più dove piangere, nei volti stanchi e segnati di chi ci vive accanto ogni giorno?
Viviamo un tempo di profonda contraddizione. Da una parte celebriamo la Parola e l’Eucaristia, dall’altra sembriamo incapaci di avere sguardi profetici sulla realtà, incapaci di ascolto autentico, schiavi di logiche ecclesiali autoreferenziali o sociali anestetizzate. Il rischio è che anche la fede diventi uno dei tanti strumenti di rimozione del dolore, piuttosto che un luogo in cui imparare a restare umani.
Ma come si fa a restare umani? Come si fa a non smarrire il volto, il cuore, la carne nel tempo della virtualità e della distanza emotiva?
Provo a indicare sei gesti possibili, sei piccole strade, che forse ci possono riportare a quel battito vero che ci fa essere uomini, credenti e fratelli.
1. Rieducarci allo sguardo
“Vide, ebbe compassione, si fermò” (Lc 10,33): è l’alfabeto del Vangelo.
Siamo diventati ciechi. Vediamo tutto, e non vediamo nulla. Restare umani comincia da qui: guardare di nuovo, fermarsi, lasciarsi colpire. Non voltare lo sguardo. Non ignorare. Non scorrere via. Lo sguardo è la prima forma della cura.
2. Imparare il silenzio che ascolta
Viviamo sommersi di parole, opinioni, notifiche, risposte automatiche.
Abbiamo perso la capacità di ascoltare con il cuore. Restare umani è imparare il silenzio che non è vuoto, ma grembo di accoglienza. Fermarsi ad ascoltare, davvero, chi ci parla, chi ci supplica, chi magari non ha più voce per farlo.
3. Spezzare l’indifferenza con gesti concreti
Non salveremo il mondo da soli. Ma possiamo interrompere l’indifferenza, ogni giorno. Una visita, una telefonata, una parola detta a chi nessuno ascolta, un volto incontrato non per dovere, ma per amore. Gesti piccoli, quasi invisibili. Ma sono questi che fanno memoria di ciò che è umano.
4. Liturgie che siano carne, non rifugio
“Questo è il mio corpo” non è una frase da altare. È una chiamata a incarnarsi. Se le nostre liturgie non ci portano fuori, verso i corpi feriti della storia, allora diventano ritualità sterile. Restare umani è fare della liturgia un trampolino per la compassione, non una nicchia protettiva.
5. Riconoscere la ferita senza giudicarla
La fragilità dell’altro non è un fastidio, ma una rivelazione. Siamo tutti feriti, eppure facciamo finta di no. Nelle relazioni quotidiane abbiamo smesso di chiederci cosa ha ferito quella persona che ora ci sembra solo “difficile”. La cura non parte dalla correzione, ma dalla compassione che sa stare accanto.
6. Generare comunità che si espongono
Non si resta umani da soli. Abbiamo bisogno di comunità che si mettano in gioco, che accolgano la fatica del mondo, che non abbiano paura di dire “non sappiamo”, ma che non smettano di cercare insieme. Comunità dove si piange, si ascolta, si spera. Dove si resta fragili, ma non si è mai soli.
Non basta denunciare la crisi. Occorre imparare nuovi alfabeti dell’umanità, nuovi stili, nuovi sguardi.
Gesù non ci ha lasciato un trattato di sociologia del dolore. Ci ha lasciato una vita spezzata, un corpo donato, una presenza che grida ancora nei corpi martoriati della storia.
Riscoprirci umani – davvero – forse è l’unico modo per riscoprirci anche credenti. E forse, in processione, potremo camminare non solo per chiedere, ma per portare con noi i volti e le storie che il mondo dimentica.
E allora, forse, saremo davvero Chiesa.