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Le manifestazioni di ieri, ovvero quel confine sottile tra protesta e odio

Le manifestazioni di ieri, ovvero quel confine sottile tra protesta e odio

da Maurizio
23 Settembre 2025
in editoriale
Tempo di lettura: 4 minuti
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Si manifesta per la Palestina ed intanto si registra una crescita di antisemitismo come mai misurata prima in Italia dalla fine della guerra

Le piazze italiane di ieri, gremite da oltre centomila persone in più di settantacinque città, hanno mostrato la forza di una mobilitazione che travalica i confini geografici ma che si è caratterizzata politicamente.

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Se è vero che queste manifestazioni sono scaturite da una sensibilità diffusa che considera la pace non come un concetto astratto, ma come una responsabilità urgente e concreta, è anche vero che quanti sono scesi in piazza per chiedere un cessate il fuoco in Palestina e denunciato la drammatica condizione della popolazione di Gaza, si è indirizzato verso una critica ai legami politici, economici e militari con Israele invertendo l’ordine della questione e individuando nel popolo ebraico un obiettivo da attaccare.

Di più, alle immagini di cortei pacifici si sono sovrapposte quelle degli scontri: la guerriglia alla stazione centrale di Milano, le vetrine infrante, i lanci di sassi a Trieste, le tensioni a Bologna e a Catania. Gesti che non solo macchiano la protesta, ma rischiano di rovesciarne il senso: il grido per la pace diventa rumore di violenza, il desiderio di giustizia si confonde con il rancore.

scontri a milano

Questa contraddizione interpella la coscienza civile. Perché non si può chiedere la fine di una guerra praticando la logica della sopraffazione. Non si può invocare la libertà di un popolo negando quella di un altro. È una trappola sottile, che scatta quando si smarrisce il confine tra critica a governi e condanna di interi popoli, tra opposizione a scelte politiche e demonizzazione identitaria. Finirci dentro significa scivolare verso quella pericolosa logica del “noi contro loro” che la storia ci ha insegnato a riconoscere come miccia dell’odio. La rabbia, se non governata, diventa un boomerang. Trasforma la protesta in pretesto, allontana la società civile e finisce per delegittimare la causa stessa che si intende sostenere.

La storia ci mette in guardia. La “Notte dei cristalli” del novembre 1938, con le sinagoghe incendiate, le vetrine distrutte e migliaia di ebrei deportati, non fu un evento improvviso, ma il frutto di una lunga deriva culturale. Tutto cominciò con parole, slogan, narrazioni che indicavano un “nemico interno”, ridotto a bersaglio. Da lì all’esplosione dell’odio organizzato il passo fu breve. Non è questione di sovrapporre eventi diversi, ma di riconoscere i meccanismi che si ripetono: il linguaggio che divide, l’idea che alcune vite valgano meno di altre, la riduzione del dissenso a nemico.

Il richiamo alla notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 non è un paragone immediato tra eventi, ma un monito. La violenza di ieri e la violenza di allora non sono sovrapponibili, ma i meccanismi retorici – la demonizzazione dell’altro, la riduzione di intere comunità a un nemico da colpire – sono simili e pericolosi. Ed è proprio qui che la memoria storica diventa fondamentale: ricordare il passato non per paralizzarci, ma per non cadere negli stessi abissi.

Oggi, nelle nostre piazze, dobbiamo vigilare perché la rabbia non degeneri in intolleranza, perché la solidarietà verso i palestinesi non si trasformi in criminalizzazione indiscriminata di Israele o, peggio, degli ebrei. La memoria della Shoah non è un capitolo chiuso nei libri di storia, ma un faro che illumina i rischi presenti: ricordarci fino a dove può condurre l’odio quando viene alimentato da retoriche semplici e assolute. Il dolore dei palestinesi merita ascolto, solidarietà, impegno concreto per una pace giusta, ma questo può avvenire solo isolando gli estremismi, sconfiggendo il terrorismo rappresentato da Hamas, costruendo una democrazia che, purtroppo, il popolo palestinese non ha mai conosciuto: soggiogato, sottomesso, controllato, sfruttato da un’organizzazione terroristica costituita con un preciso compito da statuto: il totale annientamento del popolo ebraico.

Perché non si può ignorare che sta tornando in superficie quell’antisemitismo che sotto traccia ha sempre resistito. A Bolzano l’ingresso del Municipio è stato imbrattato con della vernice rossa e con la scritta “22 vermi”, riferita ai consiglieri comunali che la scorsa settimana si erano astenuti dal voto sulla mozione anti-Netanyahu. I manifestanti del corteo di Roma per Gaza dopo essere arrivati a Piazzale Aldo Moro sono entrati all’interno della Sapienza e gli universitari hanno fatto irruzione occupando la facoltà di Lettere e Filosofia al grido di “Palestina Libera” e intonando cori contro Israele e la rettrice Antonella Polimeni. Invocare la pace non può tradursi in nuovi muri, nuove discriminazioni, nuove ferite.

Si manifesta per la Palestina ed intanto si registra una crescita di antisemitismo come mai misurata prima in Italia dalla fine della guerra. I fatti di Gaza stanno provocando un cambio di sguardo: la demonizzazione e la delegittimazione dell’esistenza di Israele, accusata di rispondere in modo asimmetrico all’atroce massacro di civili in quel drammatico 7 ottobre, si è diffusa trasversalmente (per età, ceti e appartenenza politica) e ha accresciuto l’antisemitismo.

Ed allora, il compito più urgente è trasformare le piazze in spazi di dialogo, non di scontro. La voce della società civile è tanto più forte quanto più sa distinguere tra il dolore di un popolo e la delegittimazione di un altro. Perché la pace non si costruisce con le pietre scagliate né con le vetrine distrutte, ma con la fatica – paziente e ostinata – di riconoscere l’umanità di tutti.

Se davvero vogliamo che “Palestina libera” sia un grido di giustizia, dobbiamo assicurarci che non diventi, per nessuno, una condanna.

Tags: antisemitismoguerramanifestazioniodiopacePalestinaprotestashoah

Maurizio

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