Supporto pubblico per profitti privati: la nuova liturgia urbana. Dal faro culturale alla galleria commerciale: un progresso che non fa prigionieri
di Marcello Bardi
In una città che non riesce ad aprire il proprio Teatro Comunale, non si può certo immaginare di poterne avere due di teatri!
E allora, via ogni pudore, ogni residuo affetto per quei luoghi che per decenni hanno costruito l’immaginario collettivo. Addio al “tempo – splendido e glorioso, in verità – che fu”. Basta con la retorica della storia, della cultura, dei posti che raccontano la città: roba vecchia, polverosa, muffa in forma di memoria. Oggi si cambia pelle: rinnovarsi, cambiare, diventare altro… e che il centro storico si tolga di dosso quell’aggettivo scomodo, “storico”, come un vecchio cappotto che non va più di moda.


La cultura stanca. La storia pesa. La memoria rallenta. Via tutto. L’importante è apparire nuovi, dinamici, scintillanti. E poi, suvvia, un privato deve pur fare soldi: mica ci si può aspettare la beneficenza!
Così, dopo anni di tentativi falliti di acquisizione pubblica – ai tempi in cui ancora qualcuno si ostinava a immaginare il Valentini come presidio culturale – oggi il messaggio è cambiato. E il Valentini, quel simbolo di un passato troppo glorioso per essere sopportato, può finalmente uscire dalla sua agonia. Non più cinema, non più teatro, non più luogo della città: finalmente diventerà ciò che davvero serve. Spazi commerciali. L’unica lingua che oggi tutti comprendono.
E il Comune, commosso davanti a tanta intraprendenza, corre ad offrire tutto il supporto possibile. “Accelereremo l’iter burocratico”: parole che fanno sobbalzare chiunque abbia mai chiesto un permesso per aggiustare un balcone. Ma evidentemente, se c’è da cambiare il destino di un luogo simbolo, la velocità torna miracolosamente.
La proprietà vuole cambiare destinazione d’uso? E che problema c’è: “prego, accomodatevi”, anzi, grazie di averci pensato! Se cinema e teatro ormai “non fanno business”, allora meglio puntare su ciò che davvero conta: gli spazi commerciali. E se proprio proprio bisogna far finta di non essersi dimenticati della parola “cultura”, ecco l’idea geniale: un centro congressi. Che d’altra parte è sempre una parola elegante, fa molto città europea moderna, e permette anche di lavarsi la coscienza con una sola passata.


D’altronde, come non benedire un investimento “così significativo, rilevante, importante”? Il sindaco lo fa con entusiasmo quasi liturgico. E non manca la promessa: “Siamo pronti a mettere in campo tutti gli strumenti per facilitare l’iter burocratico e urbanistico necessario”. C’è quasi da commuoversi: chissà perché questa solerzia amministrativa non si vede mai quando si parla di restauri, spazi culturali, teatri pubblici. Ma evidentemente, in tempi moderni, è più urgente facilitare ciò che si vende, non ciò che si tramanda.
Il primo cittadino parla di “connubio virtuoso” tra privato e utilità pubblica, di “hub di rilievo nazionale e internazionale”, di “nuova occupazione”. Parole che scorrono come un dépliant patinato, quelle frasi che si usano quando c’è da presentare il futuro come un grande evento promozionale. E certo, fa impressione pensare che quel vecchio cinema – fermo, muto, malinconico – possa diventare un luogo vivo. Ma fa anche impressione pensare che l’unica vitalità immaginata passi per negozi, ristoranti e un centro congressi nato per sostenersi grazie alle attività commerciali… come se la cultura fosse un vezzo per anime perdute, un lusso per romantici fuori dal tempo.


E dire che il Valentini, per decenni, è stato una bussola. Un posto dove ci si riconosceva. Un pezzo di città che era, al tempo stesso, anche un po’ città. E forse sarebbe bastato poco: un progetto pubblico credibile, un’idea di cultura che non fosse la solita cenerentola dei bilanci, un’amministrazione capace di comprendere che la storia non è un peso morto, ma una risorsa. Invece no: abbiamo deciso che il passato intralcia, rallenta, appesantisce. “La Vibo che vogliamo” – dice l’amministrazione Romeo – deve guardare avanti. Come se guardare avanti volesse dire tagliare ogni radice.
Per carità: che un privato faccia affari con ciò che è suo ci può stare. Ma che lo faccia con l’appoggio del pubblico, che il sindaco in persona si metta a cercare altri privati pronti a finanziare un progetto che resta pur sempre un investimento privato… Che lo faccia con il Comune al fianco, con il Comune promotore, con il Comune garante, pone domande un po’ più scomode. È tutto logico? Opportuno?
O forse siamo davvero nella fase storica in cui il bene comune si misura in metri quadri commerciali e la cultura si considera solo quando serve a riempire un comunicato stampa?

Eppure, Gesù scacciò i mercanti dal tempio: non ne favorì il cambio di destinazione d’uso.
Ma noi siamo moderni, evoluti, pragmatici: e oggi, a quanto pare, anche quello che è stato un tempio di cultura può essere convertito, purché renda.
E Vibo Valentia, si sa, guarda avanti: il passato è un impedimento, la tradizione un fastidio, la storia una zavorra.
E in fondo, vuoi mettere un bel ristorante scintillante, un outlet che porta un bel via vai di gente, quel movimento che è già sinonimo di “rinascita”? E se poi, in un angolino, ci scappa anche una libreria — piccola, discreta, purché non dia fastidio — potremo dire di aver fatto cultura. Magari anche di averne fatta abbastanza.
Insomma: cultura sì, ma solo se non pesa e soprattutto sia autosufficiente grazie ai negozi accanto. Guai a pensare che un teatro possa essere concepito come un bene collettivo da sostenere: troppo idealista. Troppo anni ’50. Troppo Vibo di un tempo che è meglio dimenticare. Questa dell’era nuova è la Vibo che guarda oltre, la Vibo che non deve più essere frenata dalla storia, dalle radici, dall’identità. La Vibo che non vuole più essere “storica” ma “riqualificata”,
D’altronde è realistico ed inevitabile che in una città che non riesce ad aprire il proprio Teatro Comunale, non può certo immaginare di poterne avere due.
E forse non vuole nemmeno averne uno.










