Amici, simpatizzanti, ma anche semplici cittadini si sono incontrati alla Cala del Porto di Vibo Marina per ragionare sulla vicenda dell’ex-sindaco di Roma
La detenzione di Gianni Alemanno continua a sollevare interrogativi che vanno ben oltre il singolo caso giudiziario. Condannato a un anno e dieci mesi per traffico di influenze nell’ambito dell’inchiesta “Mondo di Mezzo”, l’ex sindaco di Roma sta scontando una pena che, per molti osservatori, appare sproporzionata rispetto al reato contestato e accertato.
È difficile sottrarsi alla sensazione che, più che di una condanna esclusivamente giuridica, si tratti di una sorta di resa dei conti politica. Il traffico di influenze, pur essendo un reato da non minimizzare, non rientra tra i crimini più gravi del nostro ordinamento. Eppure Alemanno si trova in carcere, mentre in numerosi altri casi — anche a fronte di accuse ben più pesanti — si è fatto ricorso a misure alternative alla detenzione o a regimi meno afflittivi.

Questa evidente asimmetria alimenta un senso di amarezza e pone una domanda scomoda: la giustizia è davvero uguale per tutti? O, in alcuni casi, diventa uno strumento simbolico, chiamato a punire non solo un comportamento ma una storia politica, un’appartenenza, un ruolo pubblico?
Amici, simpatizzanti, ma anche semplici cittadini che non condividono l’eccesso di una vicenda che resta paradossale, si sono incontrati alla Cala del Porto di Vibo Marina per ragionare sulla vicenda dell’ex-sindaco di Roma Gianni Alemanno, tornato in carcere per scontare il residuo di pena in seguito a irregolarità commesse nel corso della messa in prova, esemplifica questa confusione.
Guidati dall’ex senatore Franco Bevilacqua, oggi coordinatore regionale del movimento politico Indipendenza dallo stesso Alemanno fondato, Maria Silvestro e Luigi Colosimo hanno riflettuto prendendo spunto dal libro “L’emergenza negata – Il collasso delle carceri italiane scritto proprio da Gianni Alemanno durante questo periodo di detenzione insieme ad un altro detenuto, Fabio Falbo con la prefazione della leader radicale Rita Bernardini.
Il sospetto che Alemanno sia stato trasformato in un capro espiatorio si inserisce in un contesto più ampio, segnato da una persistente diffidenza verso la politica, eredità mai del tutto elaborata della stagione di Mani Pulite. Un clima in cui l’odio verso la “casta” rischia di legittimare, nell’opinione pubblica, pene esemplari e trattamenti severi, anche quando appaiono sproporzionati rispetto alla colpa accertata.
Naturalmente, nessuno è al di sopra della legge, e le sentenze vanno rispettate. Ma il rispetto della legalità non può prescindere dal principio di proporzionalità della pena e dall’equilibrio tra repressione e garanzie. Quando questi principi sembrano vacillare, la giustizia perde credibilità e rischia di apparire come uno strumento di vendetta più che di equità.
Il caso Alemanno, al di là delle simpatie o delle antipatie politiche, dovrebbe spingere a una riflessione più profonda sul funzionamento del sistema giudiziario e sul rapporto irrisolto tra magistratura, politica e opinione pubblica. Perché una democrazia matura non si misura dalla durezza delle sue punizioni, ma dalla capacità di applicarle in modo giusto, proporzionato e imparziale.









