La vicenda è quella relativa al sequestro nel 2017 degli elenchi degli iscritti siciliani e calabresi all’Obbedienza massonica del Grande Oriente d’Italia, da parte della Commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi
Il rispetto della privacy è un principio inalienabile in paese democratico e civile. L’articolo 12 della Dichiarazione Universale recita testualmente: “Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni”.
Sia chiaro, il diritto alla riservatezza, alla cosiddetta privacy, non è sinonimo di diritto ‘all’anonimato’ o ‘ad essere solo/a’, bensì ribadisce il diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni quale presupposto per l’esercizio di molti altri diritti di libertà.
Ecco perché si fa riferimento ai Paesi che si proclamano civili e democratici. Perché il riferimento è al diritto alla riservatezza delle informazioni personali, in altre parole al diritto alla propria vita privata.
Lo Stato italiano questo diritto lo ha violato. Certamente lo ha violato quando ha minato la privacy dei cittadini italiani iscritti al Grande Oriente d’Italia in qualità di massoni. E che abbia violato questo diritto lo sostiene la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha dato ragione alla principale obbedienza del Paese.
I massoni avevano fatto ricorso a Strasburgo, quando nel 2017 la Guardia di Finanza aveva fatto irruzione nella sede del Goi a Roma, al Vascello. A inviare le Fiamme gialle a sequestrare le liste degli iscritti nelle logge della Sicilia e della Calabria era stata la Commissione Antimafia, all’epoca guidata da Rosy Bindi. Un atto che aveva rappresentato il culmine dello scontro tra Palazzo San Macuto, impegnato in un’indagine su mafia e massoneria, e l’obbedienza guidata dal Gran Maestro Stefano Bisi.
Ricordare questa vicenda è quanto mai opportuno perché ad essere presi di mira dalla Commissione Bindi erano in via esclusiva le liste dei massoni siciliani e calabresi. Il GOI, Grande Oriente d’Italia, si era rifiutato di consegnare questi elenchi spontaneamente, “in quanto – veniva sostenuto l’obbedienza massonica italiana – da un lato non risultava che alcun iscritto fosse indagato dalla magistratura e dall’altro perché ciò avrebbe costituito una massiccia violazione della normativa in materia di protezione dei dati personali degli iscritti”,
Alla fine la Commissione parlamentare aveva deciso di usare i poteri dell’autorità giudiziaria che portò all’epoca al sequestro di 39 faldoni con le schede di circa seimila iscritti alle logge di Sicilia e Calabria. Ed a nulla era servito che il Grande Oriente avesse chiesto il dissequestro degli elenchi al tribunale di Roma e poi avesse fatto ricorso al Garante della privacy: in entrambi i casi le istanze erano state rigettate. A quel punto il Goi aveva deciso di andare fino a Strasburgo. Sette anni dopo i giudici della Cedu hanno condiviso la posizione del professor Vincenzo Zeno-Zencovich, che rappresenta i massoni, condannando lo Stato a versare 9.600 euro per danni non pecuniari e 5.344 euro per spese legali al Grande oriente.
A rendere paradossale questa vicenda, il particolare che, come ricorda il Goi: “Dopo tale massiccio sequestro, nelle 500 pagine della relazione finale della Commissione firmata dall’on. Bindi non vi è l’indicazione di neanche un iscritto al Grande Oriente d’Italia che risulti indagato dalla magistratura per reati di mafia”.
In una sentenza lunga 40 pagine la Cedu considera la perquisizione e il sequestro – che nel ricorso a Strasburgo, l’avvocato Zeno-Zencovich aveva definito come “intimidatoria” – come una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che disciplina il diritto al rispetto del domicilio e della riservatezza. La Cedu, inoltre sostiene che il provvedimento eseguito dalla Finanza fosse “sproporzionato”: “Non vi era alcuna evidenza che la acquisizione di tanti dati cartacei e digitali fossero rilevanti ai fini della inchiesta della Commissione”.
La Corte europea critica anche il fatto che non si possa fare ricorso contro le decisioni della Commissione parlamentare, auspicando l’esistenza di una “qualche forma di controllo ex ante o ex post da parte di una autorità indipendente quale garanzia essenziale contro interferenze arbitrarie dei pubblici poteri”.
Per tutte queste ragioni la Cedu ha considerato la perquisizione e il sequestro, ordinati allora dalla Commissione presieduta da Rosy Bindi, come “non conformi” e “non necessarie in una società democratica”.