È certamente non più differibile una riforma radicale, ponderata e il più possibile condivisa dell’apparato giudiziario
di Alberto Capria
Una riflessione scevra da pur legittime appartenenze e convinzioni, magari associata a linguaggio consono ed a corrette posture istituzionali, facilmente giungerebbe ad una conclusione: la questione giustizia in Italia ed il suo rapporto con la politica – con le scontate implicazioni costituzionali, civili e sociali – è in una fase avanzata di degenerazione, nonostante continui ed inascoltati appelli del Presidente della Repubblica.
Quella che viene definita “macchina della giustizia”, non funziona come dovrebbe; lunghezza dei tre gradi di giudizio (al termine dei quali – e solo e soltanto allora – si può essere considerati colpevoli), frammistioni di compiti, protagonismo imperante, ed il numero spropositato di leggi e norme (circa 111.000 in Italia a fronte di 7.000 in Francia, 6.000 in Germania) non aiutano. Autorevoli costituzionalisti hanno individuato nella “inflazione legislativa” e nella “moltiplicazione delle fattispecie di reato” i fattori principali dell’attuale condizione d’inadeguatezza degli uffici giudiziari. Questo status quo incentiva, senza giustificazione, un diffuso senso di sfiducia.
Il problema in questione è affrontabile soltanto con riforme attentamente pensate, di respiro comunitario e che oltrepassino logiche di legislatura e di schieramento; anche perché quando si toccano temi complessi, una visione globale della questione – incastonata in un ambito comunitario – è obbligatoria.
Se si parla di Scuola, Welfare, Costituzione e Giustizia, si discute dei pilastri di una democrazia come la nostra. Ricondurre perciò gli interventi a calcolo politico, significa quantomeno ridurre la portata degli approfondimenti e degli auspicabili provvedimenti.
La questione giustizia non è assolutamente riducibile aritmeticamente al consenso, pur legittimamente ampio, di una maggioranza. Sarebbe infatti disastroso se, in una democrazia dell’alternanza, si dovesse affermare il principio in base al quale ogni maggioranza abbia il diritto di modificare a proprio piacimento le regole del vivere civile; a meno che non ci si ispiri – tradendo principi, tradizioni e storia del nostro Paese — a nuovi cowboy o …redivivi zar.
È certamente non più differibile una riforma radicale, ponderata e il più possibile condivisa dell’apparato giudiziario, ancorata al contesto comunitario, che va ripensato sotto l’aspetto organizzativo, procedurale, ordinamentale e delle responsabilità.
La giustizia deve possedere serenità di indagine e di giudizio, necessaria responsabilità ancorata al “potere” esercitato, risposta in tempi certi e rapidi; ben altro che separazione delle carriere. Tenendo comunque presente che la Costituzione, assegnando alla “politica” due poteri su tre (legislativo ed esecutivo), di fatto ne sancisce il primato.
Ciascuno faccia il suo: il giudice che si voglia sostituire al Governo o al Parlamento, assume un atteggiamento devastante per la democrazia; esattamente come il Parlamento o il Governo che voglia sostituirsi alla Magistratura.
Una democrazia compiuta infatti, poggia le sue solide basi su un vecchio adagio di reminiscenza liceale: lex facit regem – e non – rex facit legem!