Importante, a questo punto, è interrogarsi sul significato che può avere il termine “conservatore” all’inizio del XXI secolo
di Maurizio Bonanno
Gli ultimi risultati elettorali – politiche del settembre 2022 e regionali del febbraio 2023 – hanno disegnato un quadro politico che sposta l’asse di centrodestra lasciando il ruolo di locomotiva ai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Ma la politica italiana, com’è sua abitudine, è più complessa di quello che dovrebbe essere. Infatti, il vero problema della leader è gestire il proprio interno, gli alleati, impresa che giorno dopo giorno si mostra ardua e ricca di ostacoli. La soluzione praticabile è avere il coraggio politico di agire di conseguenza in modo che questo centrodestra a trazione meloniana possa aprire nuovi spazi con conseguenti scelte forti e coraggiose di cambiamento politico, se non vuole implodere.
La conferma viene dall’opposizione alla leader, che, come dicevamo, è soprattutto all’interno piuttosto che all’esterno della coalizione. Il dato più evidente è in politica estera, dove l’atlantismo della Meloni deve fare quotidianamente i conti con il putinismo, prima di Salvini e poi in maniera più pericolosa di Berlusconi.
Non c’è da meravigliarsi, tutt’altro: che a destra vi fosse un significativo gruppo di simpatizzanti del leader del Cremlino non è una scoperta (d’altronde, identico problema si ritrova nel centrosinistra, là dove il Pd deve fare i conti con il tradizionale antiatlantismo della sinistra dura e pura, cui si aggiunge il filoputinismo grillino, che, sin dalla prima ora, non è mai stato un segreto – citare le scelte politiche del Conte I (governo gialloverde, sic!), è sin troppo ovvio!
La competizione interna che va consumandosi nel centrodestra sta creando un rivolgimento della cartina geografica, che spedisce a destra i forzisti berlusconiani ed i leghisti salviani (sottogruppi necessari per comprendere quanto complesso sia il panorama al momento ancora non visibile, ma già realistico) e spinge verso il centro i Fratelli di ispirazione meloniana. D’altronde, l’evoluzione di Giorgia Meloni nello scenario politico italiano e internazionale è costante e coerente. Appare di lampante evidenza la strategia della presidente che sta sempre più attorniandosi nella sua esperienza a Palazzo Chigi di personaggi eterodossi, non provenienti dalla sua storia e dalla storia del suo partito. Un’intelligente operazione di innesto dolce ed indolore che sta operando con oculata quanto inesorabile propulsione, sia pure lenta. Ormai i casi di “dolce innesto” sono così numerosi da non poter essere ricondotti a coincidenze. Per lo più, coloro che sono chiamati a collaborare con la premier provengono da un’area che si può definire moderata-liberale. Il più noto è il ministro di punta del suo governo, Carlo Nordio, che è anche il più lontano da lei per cultura politica di provenienza. Ma tanti altri non riconducibili direttamente alla destra, soprattutto tra i collaboratori più stretti, sono nel frattempo approdati alla sua corte. Non può essere una scelta casuale.
Così come non è sbagliato far sì che il suo partito, invece, resti al momento del tutto impermeabile a questa evoluzione, considerato che comunque resta lei l’incontestata leader. Se si aggiunge a questo il fatto che al momento la premier non ha competitor nel suo campo così come nell’opposizione, il risultato che ne consegue è l’idea che non possa trovare ostacoli l’ipotesi di costruire una formazione politica paragonabile a quella della destra britannica. La lezione di Winston Churchill e il suo passaggio dai liberali ai conservatori può essere un modello. A patto, però – e qui ritorna la questione dell’opposizione interna – si scrolli di quegli ostacoli che gli alleati frappongono: dai balneari, ai tassisti, da ITA alle pulsioni manettare in stile post rave; soprattutto la drammatica vicenda della strage di immigrati sulle coste crotonese, la cui gestione ha aperto polemiche feroci fino al compromesso dei provvedimenti presi nel Consiglio dei Ministri tenutosi a Cutro. Sono tutti indicatori che segnano inesorabilmente le difficoltà del percorso a cui la presidente del Consiglio ha già dovuto inchinarsi, rallentando non poco e rischiando di compromettere il suo pur ambizioso progetto, che non può non fare riferimento al conservatorismo reaganiano e/o tatcheriano.
Il quadro dei partiti oggi in campo potrà favorirla.
Come già detto, non ha competitor nel suo campo: non lo è Matteo Salvini, che con il suo partito viene da tutt’altra storia; non lo è Forza Italia, il cui declino costante potrà anzi favorire il suo progetto. Non è un problema l’opposizione, che fa di tutto per favorirla. E continuerà a farlo. La coazione continua a ripetere gli errori, che non trovano soluzione con la nova forma di opposizione, gridata quasi sguaiata della nuova leader: è una maledizione del Partito democratico di cui bisognerà definitivamente prendere atto.
Intanto, le mosse di Giorgia Meloni stanno già andando verso la direzione da noi prevista. A cominciare dalla collocazione internazionale e dalle conseguenti posizioni senza oscillazioni sulla guerra in Ucraina, dalla continuità con l’esperienza di Mario Draghi in tanti settori della vita economica e sociale, dalle – ancora solo accennate – posizioni garantiste sul delicato tema della Giustizia. Anche il suo attivismo sul terreno delle istituzioni dell’Unione europea e i suoi rapporti in Europa lasciano prefigurare l’intenzione di porsi alla testa dei vari conservatorismi europei, piuttosto che lasciarsi trascinare da essi. È il caso di ricordare che lei è già presidente del gruppo parlamentare europeo Ecr, quello, appunto, dei conservatori europei.
Insomma, tutto torna. Tutto porta verso l’ambizioso obiettivo di dare vita in Italia a un moderno partito conservatore, che si ispiri a un’esperienza precisa, il conservatorismo inglese appunto.
Tutto sembra muoversi in tal senso.
A questo punto, non sarà male interrogarsi sul significato che può avere il termine “conservatore” all’inizio del XXI secolo.
Sento di condividere la definizione che già la scorsa estate ha illustrato Ernesto Galli della Loggia sul Correre della Sera: “Essere politicamente conservatori non significa essere contro il cambiamento, non significa affatto essere a favore sempre e comunque del mantenimento dello status quo. Significa una cosa assai diversa: significa essere contro il cambiamento come lo intendono i progressisti. Contro i contenuti, le scelte e i tempi che caratterizzano la politica progressista, e viceversa essere a favore di scelte e contenuti differenti”.
Compito di un conservatore è “conservare” i «valori» di una società, alcuni aspetti essenziali della sua «tradizione». Anche in questo caso, per capire cosa significa ciò, rileggiamo Galli della Loggia: “Beninteso con la consapevolezza che i valori e la tradizione sono un fatto storico, dunque frutto del mutamento e perciò soggetti pur essi inevitabilmente a mutare. La cui difesa perciò non può che essere una difesa elastica: vale a dire ragionevole, argomentata, e inevitabilmente disposta a qualche margine di compromesso o di ritirata”.
Dunque, conservare davvero, significa non già opporsi al cambiamento in quanto tale ma opporsi al cambiamento che obbedisce supinamente all’ultima moda, all’ultima formuletta culturale del politicamente corretto, alla demagogia dei tempi: “Ed è proprio perché si oppone alla demagogia dei tempi che un vero conservatore dovrebbe sentire l’obbligo, lui per primo, di rinunciare alla possibile demagogia del proprio campo”, ammonisce ancora l’editorialista del Corriere della Sera.
Procedere verso un nuovo partito conservatore significa, quindi, agire per ricomporre ed aggregare un’area politica ed ideale che si riconosca in un un’idea di politica rigorosa e forte, onesta ed appassionata, che sappia misurarsi sui problemi dell’oggi, con lo sguardo rivolto ad dopodomani, alle reali necessità del popolo italiano, del territorio, delle comunità locali. Lavorare per un’idea politica capace di leggere la realtà contemporanea (piuttosto che rinchiudersi negli steccati degli slogan), pronta ad interpretarla, impegnata a mobilitare e rappresentare nuove energie politiche, sociali e culturali. Credere in una politica coinvolgente, che chiami a raccolta i ceti produttivi, i lavoratori di ogni categoria, che si confronti con l’associazionismo, con il mondo del volontariato, con i comitati presenti sul territorio.
Ed ancora, individuare regole e modalità per fare emergere una nuova classe dirigente, espressione del territorio, delle categorie produttive, di quegli intellettuali relegati al margine perché non funzionali al mainstream inesorabilmente di sinistra, degli interessi reali della gente. Finirla con una visione della politica come conformismo, quieto vivere, retorica, urlo senza costrutto, silenzio pavido, gretto conservatorismo. Risvegliare le coscienze di chi ancora crede che valga la pena impegnarsi in una grande battaglia civile, fatta nel nome dell’onestà, della partecipazione, del volontariato.
Insomma, essere conservatori, come si vede, è una faccenda assai complicata. Perché non vuol dire essere di una destra più simpatica e rassicurante. Certo, vuol dire non essere di sinistra, ovviamente, mavuol dire soprattutto essere a favore di valori, di principi — il buon senso, la cautela, l’amore per il passato, la conoscenza del mondo, il senso dello Stato, la coerenza — che, a prescindere che siano di destra o di sinistra, sono principi che al momento stanno forse da un’altra parte.
Eh già, come diceva quel saggio?