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L’informazione al tempo dei social, tra ricerca della verità, haters e gogna mediatica

Una riflessione schietta e senza alibi ripensando all’affascinante lavoro del giornalista alla luce degli ultimi drammatici fatti di cronaca

di Maurizio Bonanno

Non è mai abbastanza il tempo impiegato a riflettere su ruolo e funzione dell’informazione dinanzi a fatti di violenza e/o dinanzi a notizie che possono innescare violenza, nel tempo in cui sono i social media a dettare i tempi della comunicazione.

Prendo come spunto la vicenda di questi ultimi giorni, quella della morte di Giovanna Pedretti, la titolare della pizzeria ’Le vignole’, trovata senza vita nel Lambro domenica scorsa dopo essere finita al centro della cronaca per il caso della recensione omofoba e contro i gay.

La conferma che si sia trattato di un suicidio è la conferma di come l’evolversi della comunicazione, con il sopravvento dei cosiddetti haters nei social, stia creando un corto circuito dai risvolti drammatici. Perché, se da un lato questa morte viene annoverata tra i suicidi indotti via social, dall’altro sta provocando una reazione altrettanto drammatica, con il paese lombardo dove viveva Giovanna Pedretti che si sta rivoltando contro il mondo dell’informazione in generale, senza altre distinzioni, nel mentre si pone sulla graticola Selvaggia Lucarelli, a sua volta destinataria di diversi messaggi d’odio che le sono arrivati per e-mail e sui social. Parole pesanti quelle rivolte alla giornalista e volto tv, che, dopo il caso di Sant’Angelo Lodigiano, a sua volta, come in una sorta di giostra impazzita, ha ribaltato la questione, seppure ponendo alcune considerazioni da non trascurare.

La prima è che – a suo giudizio – ancora nessuno ha il coraggio di fare una riflessione sul ruolo della stampa oggi e domandarsi perché, questo caso – una notizia da lei definita irrilevante e che, a giudizio del suo compagno, sembrerebbe pure falsa – era in home ovunque, comprese le principali testate giornalistiche ed a seguire tutti i media (compresi i tg di tutte le tv generaliste nazionali, che lo hanno trattato con raffiche di servizi giornalistici). Lucarelli, rafforzando il corto circuito che sta subendo il mondo dell’informazione, ha poi attaccato «i giornalisti che in queste ore paragonano il debunking che spiega perché una notizia è falsa – ella afferma – al giornalismo modello Iene che fa imboscate a chi rifiuta interviste, insegue, bracca, aspetta sotto casa o al lavoro, monta le immagini dei silenzi e delle fughe, musichette suggestive e faccioni degli inviati in servizi tv in prima serata…».

Cosa rispondere? Come ribattere?

Ritengo sia opportuno partire da una riflessione, questa volta mia, su come stia cambiando la cronaca e come, in particolare, stia scomparendo il giornalismo di inchiesta: troppo costoso, troppo pericoloso, troppo soggetto al fuoco incrociato dei poteri forti e del popolo di Internet, che se da un lato ha fatto da cane da guardia della libertà di informazione, dall’altro ha dato voce a centinaia di anonimi troll e lanciatori di fango, ancor più velenosi quando il bersaglio appartiene al sesso femminile.

La verità, nel grande circo multimediatico che è ormai diventato il mondo dell’informazione, sembra contare meno di un’opinione strillata, o di uno scandalo ben confezionato. Spesso, dunque, si perde di vista la sostanza dei fatti, o la gravità di certe azioni, per dare spazio alle querelle e alle chiacchiere, e quando questo succede a farne le spese è la democrazia.

Il crinale storico è quello fra informazione vecchio stile, affamata di scoperte e coraggiosa fino all’incoscienza, e informazione nell’epoca in cui le notizie non si cercano ma rimbalzano di sito in sito, di blog in blog, senza che chi le ripropone si prenda la responsabilità di verificarne la veridicità (ma di certo si prende il gusto di fare le pulci alle rivelazioni altrui). Il rischio è quello di dimenticare l’imperativo deontologico della seconda (e terza, e quarta) domanda per concentrarsi su sterili querelle e gogne mediatiche sempre utili a chi vuole che le notizie, quelle vere, passino in secondo piano.

Come si può definire o rappresentare un giornalismo di qualità in un periodo storico in cui le notizie escono ad una velocità incredibile e spesso non vengono nemmeno controllate? A quale prezzo e con quali conseguenze?

Sappiamo come negli Stati Uniti, chi si incarica di verificare le fonti giornalistiche, se sbaglia paga il suo errore a caro prezzo. Ben diverso ciò che accade in Italia.

Un esempio, il più noto forse, ma da allora altri se ne sono consumati.

Il 17 giugno 1983 si consumò un “orrore” giudiziario dai risvolti terribili. Enzo Tortora era alla guida di Portobello, quando fu arrestato e ingiustamente accusato di associazione camorristica e traffico di droga da condannati di mafia e testimoni non attendibili.

Da quel momento per Tortora cominciò un’odissea nelle aule di giustizia, fatta di carcere e gogna mediatica, che si concluse solo nel 1987, quando la Cassazione confermò l’assoluzione pronunciata dalla Corte d’appello di Napoli.

Quando Enzo Tortora venne finalmente assolto con formula piena, apparve fiaccato dalla vicenda, stanco e già malato, fino a morire due anni dopo: quella morte avrebbe dovuto pesare sulla coscienza di chi, ai vari livelli, gestì la vicenda con quell’enfasi mediatica, che ha poi fatto scuola e grazie alla quale oggi in Italia si assiste ad una giustizia che si sviluppa su 4 gradi di giudizio, il primo dei quali è gestito in via esclusiva dalle procure che inscenano un processo mediatico sulla base dei loro teoremi, riportate acriticamente da certo modo di fare informazione, senza che la difesa possa avere voce in capitolo e con danni il più delle volte irreparabili per chi ne rimane ingiustamente vittima.

Tutto questo è possibile perché – al di là di qualunque siano le conclusioni del reale iter processuale, a prescindere dalla consistenza delle prove acquisite a supporto delle tesi accusatorie – i protagonisti ai diversi livelli – inquirenti, giudici, giornalisti, opinione pubblica – sono esonerati da ogni responsabilità diretta della loro attività professionale, qualunque siano le conseguenze a danno di imputati ingiustamente accusati e caricati sulla gogna mediatica da certo giornalismo (ma si può chiamare così? È, questo, giornalismo?) che si pasce di beceri moralismi un tanto al chilo ignorando la presunzione di non colpevolezza che è sancita dalla Costituzione, perché prevenuti e imbevuti di cultura giustizialista.

Sul tema del “diritto di cronaca” ormai da tempo sembrava essere pervenuti ad una struttura piuttosto consolidata della sua definizione dottrinale, normativa e giurisprudenziale, che sostanzialmente è stata circoscritta alla nozione di “diritto di informare”, consistente nel diritto a pubblicare/divulgare quello che è collegato a fatti e avvenimenti di interesse pubblico o che accadono in pubblico, che deve osservare le seguenti condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la correttezza formale dell’esposizione che non deve concretizzarsi in attacchi di natura personale.

Quest’ultimo concetto invita a confrontarsi in un ambito sinora non ampiamente esplorato perché non si poteva immaginare che il diritto di cronaca potesse sconfinare addirittura in un esercizio della violenza privata. Ma ciò è purtroppo spiegato nel diritto vivente di questi tempi, in cui un certo modo di fare informazione che si manifesta con tratti alquanto eccessivi – sempre più aggressivi e rivolti alla “gogna mediatica” anche attraverso l’amplificazione degli strumenti  digitali e dei social network – su cui molti attendono almeno una moral suasion delle stesse linee editoriali, e qualche prescrizione più specifica nelle regole deontologiche definite per ultimo nel “Testo unico dei doveri del giornalista” del Consiglio Nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti (la cui versione più aggiornata è entrata in vigore il 1° gennaio 2021).

Bisogna innanzitutto ricordare che “l’altissimo compito di informazione” deve, in ogni caso, attenersi – finché non intervenga una sentenza di condanna – al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell’imputato e “non può tacciare quindi l’indagato (o l’imputato) di una colpevolezza non ancora accertata formulando – anticipatamente – giudizi di responsabilità e spettacolarizzando la notizia in questione per attrarre ed, al tempo stesso, soddisfare la curiosità (più che l’interesse pubblico alla notizia in sé)  di un elevato numero di spettatori” (il cosiddetto “sbatti il mostro in prima pagina”!). E dunque in simili casi il diritto di cronaca non può certamente essere reclamato come scriminante perché “viola i c.d. limiti esterni che impongono un corretto bilanciamento tra valori costituzionali contrapposti”.

In nessun caso la libertà di stampa e di cronaca possono prevalere sui diritti fondamentali dell’individuo, quali l’inviolabilità della persona e la sua libera determinazione. E ciò dovrebbe porre le basi per una riflessione più ampia, che induca lo stesso nostro Ordine professionale a valutare gli effetti distorsivi di un certo modo di fare informazione, che certamente non risponde agli interessi generali della collettività e alla tutela della democrazia, alimentando quel degrado culturale che purtroppo vede la coartazione, la violazione dell’integrità fisica e morale della persona diffusamente espresse in varie manifestazioni di comportamenti sociali del momento attuale.

Il giornalista è e rimane un “cacciatore di verità” assolvendo al compito di dare la notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare, la collettività.

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