Il 24 gennaio 1949 nasceva John Belushi, originale e irriverente, uno dei massimi esempi di genio e sregolatezza, interprete di un film che è anche manifesto politico
di Maurizio Bonanno
Il 24 gennaio 1949 nasceva John Belushi, attore, blues man, performer: un’anima rock and roll.
Uno dei massimi esempi di genio e sregolatezza che il cinema, nonché la televisione, abbiano mai avuto l’onore di conoscere e di cui godere. Nasceva oggi un vero emblema immortale di ciò che vuol dire “talento sprecato”, questo a causa di quello schifo che è la droga.
Con uno stile originale e irriverente rappresentò la rabbia e lo spirito di ribellione tipici della cultura giovanile. Diventato famoso grazie alle apparizioni allo show televisivo Saturday night live (1974), soprattutto due film per renderlo immortale ed ancora oggi rimpianto: Animal house (1978) e The Blues Brothers (1980).
The Blues Brothers, ha rappresentato un’epoca, un’attrattiva già a quel tempo, grazie al riuscito cocktail dei migliori ingredienti ben amalgamati: ottima regia, grandi attori, una colonna sonora fantastica, una trama semplice solo in apparenza, perché, in realtà, sottintende, in maniera tutto sommato neanche tanto nascosta, una tematica forte e importante.
L’idea è quella di cogliere questa occasione per offrire una riflessione che travalica il personaggio ed il film e si proetta in una realtà vissuta ancora oggi fonte di ispirazione
Il film di John Landis uscì nel 1980, quando anche in America, con l’elezione di Ronald Reagan, appena un anno dopo l’uscita del film, sarebbero risultati vincenti, diventando futuri protagonisti, certe idee liberiste che in Europa già stava portando avanti da qualche anno Margaret Thatcher, leader del Partito conservatore britannico e prima donna ad aver ricoperto l’incarico di primo ministro inglese, per ben quindi anni consecutivi, dal 1975 al 1990.
Per chi come me, a quel tempo, era un ventenne, o giù di lì, carico di entusiasmo e con l’immancabile voglia, tipica dell’età, di voler cambiare il mondo, fu come una scossa capace, di poter fare “vedere la luce”, proprio come accaduto ai Blues Brothers.
Il film (e, ovviamente, la sua straordinaria colonna sonora) divenne Bibbia, testo sacro, opera fondamentale di riferimento, fonte ispiratrice di un manipolo di giovani capaci di riunirsi per vedere e rivedere, analizzare, scomponendo e ricomponendo fotogramma per fotogramma, ogni sfaccettatura, diretta o nascosta, di quello che in realtà ci si rendeva conto essere qualcosa di più che un semplice film.
Ripensarci oggi, in un’epoca completamente diversa ed in un mondo completamente diverso, può rappresentare un’utile occasione per ripensare certe idee e certe riflessioni a quel tempo rivoluzionarie, oggi, con molta probabilità, ancor più utili ed opportune, visto la piega che la vita politica e sociale rischia di prendere in questa fase storica.
La forza di questo film è innanzitutto quella di rappresentare una satira dello stato sociale, del cosiddetto welfare state, termini che stanno politicamente riaffiorando. Sia chiaro, non che tutto questo sia un male e la conferma arriva dal fatto che nello stesso tempo nel film emerge anche una certa lode al senso di solidarietà, com’è giusto che sia, ben rappresentato dai due fratelli Blues, Jake ed Elwood Blues.
Ma il film è anche una denuncia verso quei politici che applicano lo stato sociale, ma a spese dei contribuenti (si pensi, giusto per fare un esempio di immediata attualità, come periodicamente viene recuperata la vecchia idea della patrimoniale) e che, proprio per questo, alla fine appaiono, come il più delle volte la storia ci ricorda, come truffatori ben più pericolosi dei fratelli Blues, che comunque finiscono in galera (ingenui benefattori e rappresentanti di quella categoria di semplici cittadini senza potere e senza padrini… politici), mentre loro no, i politici di professione che predicano populismo ed assistenzialismo, riescono sempre a farla franca.
Come ricorda Sergio Ricossa, in un suo vecchio ma illuminante articolo in proposito: “Il trucco di questi politici sta nel farci sembrare gratuiti i favori che promettono, mentre niente è gratuito perché il fisco ci spenna con tasse e imposte banditesche”.
La trama del film è apparentemente semplice, quasi banale quanto scontata, apparentemente…
Racconta la storia di un orfanotrofio, quello dove Elwood e Jake sono cresciuti ed hanno ricevuto una severa, sebbene non proprio efficace, educazione, visto la fine che hanno fatto e faranno (in galera). Ad impartirla, questa educazione, severa ma liberale, sono state delle suore caritatevoli, a capo delle quali vi è sorella Mary Stigmata. I due fratelli, che saranno pure habitué della patrie galere ma non sono delinquenti, vogliono bene a queste suore, nonostante le durezze con cui hanno allevato ed allevano i bambini orfani, loro compresi.
Il punto è che il “loro” orfanotrofio rischia di chiudere, perché il fisco è affamato di denaro in quanto deve mantenere il cosiddetto stato sociale, perché deve finanziarsi e questo può farlo solo attraverso pesi tributari insopportabili, anche per le suore caritatevoli.
Ed allora, ci sono poche chance. O le monache trovano in poco tempo cinquemila dollari, appunto quanto devono al fisco, oppure il fisco sfratta le monache e gli orfani, per quanto tutto ciò stia accadendo sempre e comunque in nome della solidarietà.
A differenza della realtà, il finale mantiene il classico lieto fine: perché è giusto che sia così e perché il lieto fine in un film fa sempre bene al cuore; ma è un lieto fine soprattutto perché i Blues Brothers sono “in missione per conto di Dio”.
Ed allora, Elwood e Jake riescono a ricostituire la loro banda, proprio quella che suonava il miglior jazz di Chicago, e, dopo mille peripezie ed altrettanti inseguimenti maldestri da parte dei “tutori” della legge, grazie ad un unico avventuroso concerto raccolgono i soldi necessari ed anche di più. Prendono i cinquemila dollari sufficienti a calmare la fame del famelico fisco e riescono a raggiungere l’obiettivo. Malgrado siano inseguiti da frotte di poliziotti, soldati della guardia civile ed ogni tipo di forza dell’ordine, i nostri eroi riescono a pagare il debito dell’orfanotrofio col fisco un attimo prima della scadenza. E l’orfanotrofio è salvo, almeno per questa volta.
Vincono così la loro battaglia. E la vera battaglia, quella che vede protagonisti i Blues Brothers è la battaglia tra la libertà e l’ipocrisia dissipatrice di uno stato che si pasce attraverso un falso solidarismo pubblico, che in realtà altro non è che un assistenzialismo che abitua all’inerzia, all’azione passiva del cittadino che si tramuta in suddito sovvenzionato da redditi – si chiamino di cittadinanza, di inclusione, di solidarietà o sociali – che lo condannano alla dipendenza dal politico e da certa politica.
Al contrario, John Belushi e Dan Aykroyd, essendo per loro fortuna “in missione per conto di Dio”, dimostrano che per “vedere la luce”, come ai fratelli Brothers riesce, basta aprire gli occhi e il cuore, accettare la sfida di schierarsi contro il potere vessatorio e fare da sé riuscendo, a dispetto di tutto e di tutti (tutti gli inseguitori) a raggiungere la meta ed ottenere il risultato voluto avendo fatto affidamento sulla loro capacità, sulle loro competenze, sul loro mettersi in gioco. Una destra liberale, liberista (come i conservatori della Thacter, come la destra repubblicana reaganiana, molto lontana dalla destra sovranista del presunto repubblicano Trump). che controlla e guida, limita ed indirizza la destra sociale.
Guarda un po’ che riflessioni suscita la ricorrenza della nascita di John Belushi!