L’ingloriosa fine del secolare albero che caratterizzava la piazza del Municipio di Vibo Valentia, destinataria di una nuova identità tramite il progetto in via di attuazione
di Maurizio Bonanno
Per chi ritiene che nulla nella vita sia casuale, quella di oggi è stata solo una conferma. Che tutto si sia consumato proprio il 2 novembre assume valore simbolico anche per quell’albero di cedro smembrato dalla motosega che ha inferto ingloriosa fine alla sua vita secolare caratterizzante la piazza dove ha sede il Municipio.
E poco importa se l’albero fosse del Cedro del Libano (come qualcuno indotto in errore affermava), piuttosto che cedro dell’Himalaya, scientificamente detto Cedrus deodara, specie di cedro nativo del versante occidentale dell’Himalaya, diffuso nella parte orientale dell’Afghanistan, nel nord del Pakistan, nel Kashmir, negli stati nordoccidentali dell’India, in Tibet, in Nepal e, per una coincidenza (affascinante fino a ieri, sventurata e mortale oggi) a Vibo Valentia. L’essere tale non ha potuto rappresentare una mancata nobiltà che ne giustifichi la fine ingloriosa consumatasi oggi 2 novembre sotto i colpi di una sega elettrica!
Nessun rimorso di coscienza: l’assessore all’Ambiente, Marco Miceli, mostra, a spiegazione di quanto avvenuto, il giudizio scientifico ineccepibile acquisito da autorevole esperto
mette in evidenza il passaggio della relativa ordinanza con la quale si autorizza all’abbattimento
riferisce degli abboccamenti con gli esperti del WWF, con i quali si è convenuto e concordato, ma…
Certo, dobbiamo pur comprendere che Vibo Valentia non è in Giappone. Lì, ad esempio, hanno pensieri diversi, forse più complicati, per cui accade che, quando un albero deve lasciare il posto a un nuovo cantiere o strada, non vengono risparmiati mezzi, risorse e manodopera per effettuare il suo trasferimento e garantirne la sopravvivenza sebbene in una nuova posizione.
È una questione culturale da quelle parti, in Giappone, dove gli alberi, la loro vita e la loro longevità godono di profondo rispetto.
Amara considerazione, che riporta alla memoria un vecchio romanzo di Horace McCoy, dal quale il regista Sidney Pollack trasse nel 1969 uno straordinario film: Non si uccidono così anche i cavalli?
Una metafora cruda e realistica, che sembra pensata per i giorni nostri, in questa epoca in cui il cinismo e la rabbia, l’arrivismo e la speculazione, l’arroganza di dover raggiungere il proprio obiettivo costi quel che costi hanno preso il sopravvento e si cibano di stalkeraggio via social.
E così, si uccidono i cavalli già azzoppati, prostrati da una lotta spietata per la sopravvivenza, gettati in un’arena con l’unico miraggio del potere, ormai induriti e disillusi, mentre quei pochi che restano fuori dai giochi di potere sono spettatori vagabondi di un sogno in cui si era animali liberi e selvaggi lanciati in corsa nella prateria.
Perché come oggi va il mondo produce una crisi che non è solo economica ma anche, soprattutto esistenziale e diventa disperata quando si realizza che la corsa non vale la biada né l’amor proprio, quando ci si accorge che si è pedine di un cinico spettacolo, un demagogo salotto sociale che ci ricatta, che cavalca con retorica i nostri imbarazzi, la nostra sofferenza, finendo in pasto ad un pubblico affamato dell’angoscia altrui per catarsi propria.
Sydney Pollack in quel suo film mette in mostra il suo microcosmo allegorico votato all’autodistruzione quando anche gli ultimi sognatori danno forfait nella follia, nella disillusione, nello sconforto, incurante di chi perde o vince, indifferente alla verità che, è bandita (ma se già nel progetto originario ed approvato quell’albero non era più previsto, significa che la sua fine era già segnata a prescindere ?!).
La forza del film di Pollack rimane ancora oggi la brillante capacità di aver affrontato un tema di drammatica attualità come la superficialità e il cinismo dello show business, un mondo spesso illusorio che oggi noi riversiamo nei social. Chi, come me – e tante altre generazioni di vibonesi – hanno vissuto infanzia e adolescenza, sono cresciuti e maturati prima di diventare gli uomini e donne di oggi, quando passeranno lungo quella piazza non si riconosceranno, non ne troveranno radici e storia: sarà altro, qualcosa di diverso e di nuovo. E nei ricordi si insinuerà anche questo del 2 novembre 2024 quando si scelse di dare una fine ingloriosa ad uno storico albero, perché non si uccidono così neanche i cavalli… e nemmeno gli alberi, ma… non siamo giapponesi!