La ragazza, in cura in Emilia Romagna, non è stata neppure informata né lei né la sua famiglia. Bloccato anche il “Progetto di vita” del Comune
È la solita storia, una storia di diritti negati, una storia di tutele violate, una storia che inizia con la triste e necessaria emigrazione per una sanità che qui non va, non dà e – addirittura! – toglie.
È una storia che ha come protagonista una giovane vibonese di 33 anni, affetta da gravi disabilità e costretta – come tanti altri, purtroppo – a migrare per curarsi, costretta a ricoverarsi ad oltre 1.000 chilometri da casa, in una struttura in Emilia Romagna, in regime residenziale, perché soltanto lì, lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, può ricevere cure e terapie continue che rientrano nelle «prestazioni indispensabili ed essenziali di assistenza, impossibili da garantire – come spiegano i genitori – in ambiente domestico».
a un certo punto, però, al danno di dover vivere, in questo stato di stremo bisogno, lontano da casa, perché è impossibile potersi curare nella propria terra, arriva pure la beffa. L’iter di cure improvvisamente viene interrotto. Perché? Incredibilmente, l’Asp di Vibo Valentia decide unilateralmente di chiudere il suo percorso riabilitativo.
Ancora increduli, i genitori raccontano: “la comunicazione arriva come un fulmine a ciel sereno”. Anche perché la nota non viene recapitata a casa, ma, con gesto pure sgarbato, l’Azienda sanitaria vibonese pensa bene di indirizzarla direttamente alla struttura ospitante ed all’Ausl dell’Emilia Romagna, “ignorando totalmente la famiglia interessata”.
“Nostra figlia –spiegano i genitori della 33enne vibonese – il 23 aprile di quest’anno è stata formalmente dimessa, nonostante il parere favorevole della Ausl dell’Emilia Romagna rispetto alla prosecuzione del percorso terapeutico”.
Assurdamente, “l’Asp di Vibo Valentia – precisano i genitori – ha assunto questa decisione senza mai valutare le sue effettive condizioni cliniche, senza proporre alternative assistenziali adeguate, violando l’articolo 32 della Costituzione che sancisce il diritto alla salute per ogni cittadino e l’articolo 38 che ne garantisce il diritto all’assistenza sociale per i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere”.
E, come se non bastasse, arriva il classico colpo di grazia: il Comune di residenza, Vibo Valentia, sospende anche il Progetto di Vita, “lasciando la nostra famiglia –sottolineano ancora –in una situazione di estremo disagio”.
Per fortuna, a questo mondo esistono ancora persone di senno, per cui “La giovane – precisano i genitori della ragazza – ha continuato a ricevere le cure grazie alla straordinaria umanità della struttura ospitante, ma da quel momento, “ogni tentativo di dialogo con l’Asp si è rivelato infruttuoso”.
Stando alle dichiarazioni dei genitori, “gli incontri con l’Unità di valutazione medica, il direttore del Distretto sanitario e gli assistenti sociali hanno evidenziato una sconcertante mancanza di sensibilità”.
Nessuna risposta è arrivata nemmeno dal commissario, interpellato nel mese di giugno.
“A quel punto – spiegano ancora i due genitori –abbiamo presentato formale querela nei confronti di alcuni componenti dell’Asp e segnalato la vicenda al Ministero della Disabilità, al presidente della Regione ed alla Prefettura. Ma al momento non è arrivata – concludono amareggiati –alcuna risposta. La nostra battaglia, tuttavia, proseguirà anche a livello legale, non solo per nostra figlia, ma per tutti coloro che si trovano a combattere contro un sistema che sembra aver dimenticato il significato della parola “cura” e il valore dei diritti fondamentali dei cittadini”.
È possibile che accadano fatti come questi? È giusto?
È giusto?