Riflessioni sulle pagine del Vangelo di domenica 14 agosto
di Mons. Giuseppe Fiorillo
Carissime/i,
con questa pagina del vangelo di Luca (Lc 12,49-53) siamo ancora in cammino verso Gerusalemme e, in una breve sosta, Gesù, alla folla che lo accompagna, rivolge parole drammatiche, dure e pensose.
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso”! (Lc 12,49)
Nella scrittura per ben 400 volte ricorre la parola fuoco:
- come forza distruttrice ed anche purificatrice (Levitico 13,52);
- come spazio di rivelazione di Dio: “il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava” (Esodo 3,2-3);
- come immagine del giudizio di Dio: “davanti a lui un fuoco divora e dietro a lui brucia una fiamma”(Gioele 2,3);
- come figura della parola di Dio: “ecco io farò delle mie parole come un fuoco sulla tua bocca” (Geremia 5,14);
- come un sigillo finale nella storia di amore del Cantico dei cantici: “forte come la morte è l’amore, le sue vampe son vampe di fuoco… le grandi acque non possono spegnerlo, né i fiumi travolgerlo”(Cantico 8,6-7).

Il fuoco che porta Gesù è un fuoco d’amore che inonda la terra e che scompiglia tutte le istituzioni di ieri, come di oggi.
Al tempo di Gesù soltanto una parte dell’umanità era libera e due parti schiavi, la donna era dominio dell’uomo, la cultura era patrimonio di pochi.
A questa concezione Gesù, per amore, osa affermare: “non c’è più giudeo o greco, non c’è più schiavo o libero, non c’è più uomo o donna, perché tutti siete uno in Cristo” (Galati 3,28)
Il messaggio di Gesù è l’esplosione di una passione che cerca giustizia, pace, fraternità.
E noi, oggi, siamo chiamati ad essere i portatori di questo amore se vogliamo che questo mondo non perisca per eccesso di egoismo.
È con questo fuoco che Gesù ha amato gli uomini e le loro storie, i loro fanciulli, le loro case, dove spesso è stato ospite, ha amato le loro strade polverose, sulle quali ha tanto camminato, le vigne, gli uliveti, i campi di grano e, persino, il deserto di Giuda, dove è rimasto quaranta giorni e quaranta notti, tentato dal Maligno.
E noi di questo amore smisurato di Cristo che ne abbiamo fatto?
Abbiamo creato, spesso, un cristianesimo stanco, fatto di chiese invecchiate più che di persone vive, più di parole che di vita, più di abitudini che di fede profonda, più di calcoli economici che di pazzia evangelica, più di elemosina che di giustizia.
“La nostra religione è fortemente vera, ma il nostro modo di viverla la fa apparire falsa”(Bruce Marshall).
“Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No io vi dico ma divisione. D’ora innanzi se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre” (Luca 12,51-52).
La presenza di Cristo nella nostra società provoca una presa di posizione costringendoci a schierarci o con Gesù o con lo spirito di questo mondo. La sua parola è, difatti, parola di giudizio che discerne e spinge ad una scelta.
Nessuna realtà si può sottrarre a questa operazione, nemmeno la famiglia che è la base prima della società.
Non è possibile la neutralità:
“All’angelo (vescovo) della chiesa di Laudicea scrivi: cosi parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: conosco le tue opere: tu non sei né freddo, né caldo. Ma poiché sei tiepido, non sei, cioè, né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,15-16).
È necessario, quindi, schierarsi.
“Credere è entrare in conflitto” (David Maria Turoldo).
Il vangelo di Gesù non mette in pace la coscienza di nessuno, ma la scuote dal sonno della ragione e la mette in cammino per costruire “cieli nuovi e terre nuove “.
Buona domenica.
Don Giuseppe Fiorillo