Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore dopo che era stata approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre e promulgata dal Capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre 1947. L’iniziativa dell’ANCRI Calabria
di Maurizio Bonanno
Appena 75 anni sono poca cosa nell’album della Storia e la Costituzione Italiana non può certo considerarsi vecchia, tutt’altro… è stata approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, cinque giorni dopo, il 27 dicembre per entrare in vigore in vigore l’1 gennaio 1948.
La Costituzione italiana è composta da 139 articoli suddivisi in quattro sezioni.
Proprio il 27 dicembre scorso, in occasione dei 75 anni della sua promulgazione l’ANCRI Calabria, l’Associazione che annovera gli Insigniti al Merito della Repubblica, ha voluto celebrare la ricorrenza con una cerimonia – sobria, quanto significativa – che è stata anche l’occasione per presentare il Calendario ANCRI 2023, dedicato per l’appunto alla Costituzione, tenutasi presso la Sala Oro, presenti i presidenti provinciali dell’Associazione, oltre che diversi associati.
Il Referente regionale, Gaetano Paduano, ha annunciato di aver prodotto al Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, la richiesta ufficiale di intitolare una delle sale della Cittadella Regionale al Tricolore. La circostanza è ovviamente servita per una “riflessioni” sui Principi della Costituzione Italiana prendendo spunto dalla relazione che, in qualità di iscritto all’ANCRI, ho avuto il compito di predisporre volendo dedicarla alla prima parte, costituita da dodici articoli, che rappresenta i PRINCIPI FONDAMENTALI attraverso i quali la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, cioè quelli definiti dalla dichiarazione universale dei diritti umani pubblicata dall’ONU.
Con la parola ‘’riconoscere’’ viene mostrata l’origine naturale di questi diritti, cioè che non sono stati creati dallo Stato.
I dodici articoli contenuti nei “Principi fondamentali” definiscono le caratteristiche di fondo dell’ordinamento costituzionale italiano: forma repubblicana, sistema democratico, riconoscimento dei diritti umani, affermazione del principio di uguaglianza, centralità del lavoro, principio di autonomia alla base dell’assetto regionale dello Stato, libertà di religione ma non confessionalità dello Stato, collegamento con la Comunità internazionale per la promozione della pace al costo della cessione di sovranità.
Si tratta di principi e valori fondativi del sistema giuridico dettato dalla Costituzione e, dato importante, ESSI NON POSSONO ESSERE OGGETTO DI UNA PROCEDURA DI REVISIONE COSTITUZIONALE CHE LI ELIMINI.
Al di là di ogni altra considerazione, l’intervento ha inteso soffermarsi solo su alcuni di questi Principi che – a mio modesto avviso – rappresentano pietre miliari della vita quotidiana secondo il testo della Costituzione. Questo anche in considerazione di una indimenticabile esperienza personale che ho avuto la fortuna e l’onore di poter vivere, quando, ancora studente universitario l’on. Giacinto Froggio Francica, deputato all’Assemblea Costituente, volendo conoscere meglio, mi concesse l’onore di ospitarmi nel suo studio privato presso l’abitazione di Vibo Valentia, incontro che si è poi ripetuto altre due volte (a quel tempo, sebbene giovane studente rivestivo un ruolo che mi consentiva di essere attivo in ambito sociale, nella veste di Presidente del Leo Club di Vibo Valentia, ruolo che egli ritenne importante essendo stato a sua volta fondatore del Lions Club di Vibo Valentia e Governatore dei Lions dell’Italia Meridionale),
Eletto all’Assemblea costituente nelle liste della Democrazia Cristiana, l’on. Giacinto Froggio Francica fece parte della Commissione dei 75 come membro della Seconda sottocommissione, i suoi racconti, soprattutto le sue considerazioni rimangono ancora oggi un punto di riferimento di valore assoluto.
Proprio ripensando a quei colloqui, alla lezione ricevuta, insieme all’onore di quegli incontri, ho ritenuto fosse opportuno soffermarsi su alcuni di questi Principi. partendo dal presupposto che nell’articolo 3 si legge, infatti, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua e religione.
Tra questi principi, quello di laicità, in base al quale lo Stato italiano riconosce ogni tipo di fede religiosa senza discriminazioni.
L’Italia è uno Stato laico, nel senso che, come affermato dalla giurisprudenza, le leggi ordinarie, i regolamenti e tutta l’attività della Pubblica Amministrazione devono conformarsi al principio di laicità che costituisce uno dei profili della forma di Stato così come delineato dalla Carta costituzionale. Tale principio, pur non formalmente espresso, viene presupposto e si ricava in via interpretativa dall’analisi di numerosi articoli della Costituzione (cfr. artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20) e dall’orientamento che la giurisprudenza, soprattutto quella costituzionale, ha espresso quando è stata chiamata a pronunciarsi in merito.
Dunque, lo Stato italiano è una Repubblica democratica laica e aconfessionale, senza cioè una religione ufficiale, sebbene manchi nella sua Carta costituzionale una chiara ed espressa previsione del principio di laicità come, al contrario, avviene in altri Stati (si pensi all’art. 1 della Costituzione francese) che si professano apertamente «laici».
È quella che si definisce la «anomalia» della «laicità all’italiana», che non significa indifferenza nei confronti della religione, ma che assicura eguale tutela del sentimento religioso, indipendentemente dalla confessione che lo esprime.
Un altro principio riconosciuto è quello del pluralismo, tipico di uno Stato democratico. Con pluralismo si intende il riconoscimento di individui e gruppi diversi per etnia, religione, cultura e politica. Nella Costituzione, lo Stato dichiara di non intervenire in alcun tipo di associazione e di lasciare il singolo libero di agire. Fra questi vi sono anche gruppi come i sindacati e gli stessi partiti politici.
Secondo questo principio pluralista, la persona non è vista solo come individuo singolo, ma come centro di una molteplicità di relazioni che danno vita ad organizzazioni autonome dello Stato, a loro volta titolari di diritti (così come stabilito dall’art.2 Cost.).
Il pluralismo che la costituzione garantisce ha due aspetti:
– comporta la libertà di formazione e di azione di una pluralità di aggregazioni a cui l’individuo è libero di scegliere se partecipare o no, e che possono vivere in piena dipendenza da altri gruppi identici o analoghi.
– garantisce il riconoscimento di una molteplicità di forme di aggregazione sociale che possono esistere ed operare per i fini più diversi.
Un tema centrale che viene affrontato tra i principi fondamentali della nostra Costituzione, è quello del lavoro.
Il principio lavorista trova la sua espressione specialmente nell’art. 1 e poi nell’art, 4. Il lavoro è considerato come strumento di realizzazione della personalità e di adempimento del dovere di solidarietà e il diritto al lavoro è il primo dei diritti sociali.
In particolare, il primo comma dell’art. 4 sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro per tutti i cittadini e l’impegno della Repubblica a promuovere le condizioni per renderlo effettivo.
Averlo incluso tra i principi fondamentali non è casuale, così come non lo è il riferimento alla Repubblica, anziché allo Stato, che come si è detto sottolinea il coinvolgimento dell’intera collettività (cittadini e pubblici poteri) nel perseguimento del fine indicato.
Nell’idea dei Costituenti il lavoro non è quindi soltanto uno strumento attraverso il quale mettere a frutto le proprie capacità e sostentarsi, ma anche un mezzo di partecipazione attiva alla realizzazione della collettività.
Il principio democratico, espresso nel primo comma dell’art.1 Cost., è considerato quello più comprensivo perché racchiude in sé l’origine degli altri. Tale principio deve essere inteso nel suo significato più ampio in base al quale comprende i seguenti elementi:
– principio di maggioranza: la sovranità appartenente al popolo;
– istituti di garanzia per i diritti delle minoranze;
– trasparenza nei processi decisionali dei pubblici poteri;
– libertà civili che comportano la garanzia per libertà di manifestazione del pensiero, stampa, riunione, ecc. Infatti solo in società in cui tutti siano messi in grado di conoscere i termini delle scelte e di scegliere liberamente, il consenso maggioritario, su cui si basa l’esercizio dell’autorità, ha significato.
– condizioni che assicurino un’effettiva partecipazione (art.3/II Cost.).
Ovviamente, di particolare interesse è certamente l’articolo 5 che assicura alle collettività territoriali (Comuni, Provincie, Regioni) l’autonomia dallo Stato e permette, in questo modo, ai cittadini di partecipare più da vicino alla vita politica del Paese.
Di particolare valore il fatto che tutto ciò è garantito, attraverso l’articolo 5, partendo però da un presupposto essenziale e inderogabile – si legge, infatti: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Dunque, l’Italia è uno Stato unitario, una comunità di persone che parlano la stessa lingua e hanno un patrimonio storico e culturale comune. Ma Stato unitario non significa Stato centralizzato, come era quello fascista, in cui tutte le decisioni venivano prese a Roma.
La Costituzione, infatti, afferma due diversi principi: il decentramento, in base al quale l’amministrazione statale deve prevedere anche organi dislocati sul territorio, e l’autonomia, per cui esistono enti pubblici, diversi dallo Stato, che amministrano parti del Paese, rappresentando le comunità che vi abitano (Comuni, Province, Regioni: si vedano gli artt. 114 e ss.).
La norma denota la maestria dei Costituenti nel riuscire a conciliare principi tra loro apparentemente contrastanti.
La prima parte dell’art. 5 identifica infatti i caratteri della Repubblica italiana, definendola una e indivisibile; al contempo sancisce la promozione e il riconoscimento delle autonomie locali e l’attuazione del più ampio decentramento amministrativo dei servizi di matrice statale, cui i principi e i metodi della legislazione sono chiamati ad adeguarsi.
All’interno dell’art. 5 vengono dunque affermati:
– l’unitarietà e l’indivisibilità della Repubblica;
– il pluralismo autonomistico;
– il decentramento amministrativo.
Principi che assurgono al rango di valori cardine dello Stato repubblicano e che, pur risultando apparentemente inconciliabili tra loro, in realtà si sposano perfettamente, promuovendo l’operatività e la più ampia tutela delle autonomie territoriali nel quadro di un contesto statale unitario e indivisibile.
La prima parte dell’art. 5 qualifica la Repubblica italiana come una e indivisibile, attributi che oggi appaiono scontati ma che rappresentano traguardi faticosamente conquistati dagli italiani e che i Costituenti hanno avvertito il bisogno di ribadire, soprattutto temendo una possibile deriva autonomista da parte delle Regioni.
L’unità allude ad una integrazione normativa tra i vari livelli di governo e ad una (ben più difficile) unitarietà di valori e principi condivisi.
Unità, quindi, non solo dal punto di vista territoriale e strettamente politico, ma anche e soprattutto valoriale, nel perseguimento di un processo di integrazione del popolo italiano, all’insegna dei principi solidaristici e dei diritti e doveri fondamentali sanciti in Costituzione.
L’indivisibilità si riferisce invece al carattere inscindibile della Repubblica, che non può essere smembrata né frazionata in Stati indipendenti, rappresentando quindi un limite tassativo e inderogabile ad un’eventuale separazione territoriale.
L’esplicito riconoscimento dei caratteri di unità e indivisibilità risponde al preciso intento di scongiurare derive indipendentiste o federaliste, salvaguardando il traguardo faticosamente conquistato in epoca risorgimentale.
Oltre ad operare con la finalità predetta, la prima parte della norma delinea al contempo i confini del decentramento amministrativo e dell’autonomia riconosciuta agli enti territoriali.
La prima parte dell’art. 5 Cost. contiene anche l’esplicito riconoscimento delle autonomie locali da parte della Repubblica e l’impegno alla loro promozione.
Colpisce in particolar modo la scelta lessicale operata dai Costituenti.
Si parla infatti di “riconoscimento”, a sottolineare che le autonomie locali (indicate volutamente al plurale, in quanto molteplici) sono preesistenti alla Costituzione e alla stessa Repubblica, che una volta costituita, una e indivisibile, è chiamata rapportarsi con esse.
Un’interazione che tuttavia non si limita ad una mera presa di coscienza da parte dello Stato circa la loro esistenza ma si traduce in una vera e propria promozione delle autonomie locali, un impegno proattivo della Repubblica affinché possano regolarmente operare e realizzarsi, nell’interesse del Paese.
Riflessioni necessarie e di straordinaria attualità pensando al particolare di come sul regionalismo differenziato, il dibattito pubblico appare pericolosamente vago se non proprio infedele: le reticenze del ceto politico (senza distinzione di orientamento più o meno ideologico) sono palesi, l’imbarazzo sembra essere un po’ di tutti, facendo venire il sospetto che ci si rassegni al fatto che, quasi fosse una fatalità, ogniqualvolta viene evocato il rapporto tra Sud e Nord, gli argomenti strumentali, le durezze ideologiche, le tensioni demagogiche riemergono in quantità, rendendo impossibile un ragionamento scevro da pregiudizi.
A questo punto, però. sarebbe necessario aprire un altro più ampio ed approfondito discorso che saremo pronti ad affrontare in un momento diverso dalla celebrazione odierna,