Oggi 1° maggio Festa del Lavoro, riproponiamo questo intervento in occasione di un convegno sul tema organizzato lo scorso 9 marzo dall’ANCRI di Vibo Valentia
di Maurizio Bonanno
Con la Costituzione del 1948 il lavoro viene riconosciuto come il primo principio fondamentale della Repubblica italiana.
La Costituzione ha ben presente lo stretto legame tra il lavoro, strumento per guadagnarsi da vivere e mezzo per sviluppare la propria personalità, e i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona. Per questo tutela il lavoro, inteso come ogni attività che contribuisca al progresso della società.
Ma, se il lavoro deve considerarsi un diritto irrinunciabile, se non si vuole ledere la dignità dell’uomo, lavorare è anche un dovere: la Costituzione esorta ogni persona a contribuire, nei limiti delle proprie possibilità, al benessere della comunità.
In una Repubblica fondata sul lavoro chi sceglie di non fare nulla è visto con sfavore. E solo questo basterebbe ad azzerare ogni populistica discussione su quanti oggi ritengono che piuttosto che favorire la ricerca di un lavoro sia sufficiente garantire al cittadino un reddito a prescindere (di cittadinanza? in che senso?), per una sopravvivenza che non è, non è mai né mai potrebbe essere, dignitosa
La politica è chiamata a predisporre misure per consentire a tutti di trovare occupazione e, possibilmente, di svolgere l’attività per la quale ci si sente maggiormente portati.
Per garantire che il diritto del lavoro sia effettivo, inoltre, la legge (lo “Statuto dei lavoratori” approvato con l. 300/1970 e, per i contratti successivi al marzo 2015, il d.lgs. 23/2015, c.d. “Jobs Act”) regola i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore e vieta il licenziamento ingiustificato di quest’ultimo, imponendo all’imprenditore di risarcire il dipendente allontanato ingiustamente e, nei casi più gravi, di riassumerlo.
Fondamento della società democratica in Italia, per volontà dei padri costituenti sono, quindi, gli articoli 1 e 3 Art. 1: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Questa disposizione ha dato luogo, soprattutto nei primi anni dopo la sua entrata in vigore (1° gennaio 1948), ad un vasto dibattito, che da tempo ha perso di intensità, senza che, certamente, ne perdesse il precetto stesso, che anzi riacquista piena attualità proprio nei momenti di crisi economica, come l’attuale, in cui il lavoro appare direttamente minacciato. Il fatto che questo concetto sia espresso addirittura nell’art. 1 della Costituzione deve ricordarci, come sottolinea in un suo scritto di vent’anni fa l’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida, che riguarda «il “fondamento” in quanto sta ad indicare un valore che la Repubblica attribuisce all’apporto del lavoro di ciascuno […] in luogo di altri fattori in passato dominanti, come la nobiltà di nascita o la ricchezza, ai fini del ruolo sociale dell’individuo».
Questa contrapposizione agli assetti sociali del passato, che si sostanziavano ad esempio nella limitazione alla nobiltà della partecipazione al governo del paese (qualunque dimensione e consistenza il paese avesse) ovvero, in epoca più prossima, nella limitazione del diritto di voto per censo, segna un elemento il più caratterizzante della nostra Repubblica.
Dunque, il ruolo sociale dell’individuo, o meglio del cittadino, è definito dal lavoro che svolge, naturalmente si intende lavoro in senso molto ampio: dipendente, autonomo, professionale, pubblico, privato, imprenditoriale o nei modi in cui il progresso potrà modificarlo.
Insomma, la Repubblica riconosce un valore al lavoro di ciascuno di noi per assicurare il pieno sviluppo della persona umana che tenda verso un’eguaglianza sostanziale.
Infatti all’ art. 3 si legge: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La prima parte richiama il principio storico, affermato a partire dalle grandi rivoluzioni del sec. XVIII, della eguaglianza formale tra tutti i cittadini, ma è sulla seconda parte e sulla sua formulazione che è importante porre l’attenzione. In questo caso, infatti, si proclama il principio dinamico della rimozione degli ostacoli che, essendo causa di una limitazione di fatto della libertà e dell’eguaglianza dei cittadini, hanno per effetto di impedire il pieno sviluppo della persona umana e – secondo fenomeno impedito – l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Perché secondo la nostra Costituzione sono i lavoratori i cittadini ai quali gli ostacoli di fatto potrebbero impedire di partecipare a tutti gli aspetti della società. Per cui l’impegno della Repubblica è la rimozione degli ostacoli sostanziali alla eguaglianza di fatto. I lavoratori dunque costituiscono quella parte cui è affidato un compito di trasformazione sociale fondamentale.
Ecco come la Carta costituzionale sancisce, tra i suoi principi, il valore universale del lavoro. All’art. 35, primo comma si legge: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni».
La norma appare anche lungimirante quando, settantasei anni dopo, il mondo del lavoro si è estremamente articolato rendendo sempre più necessaria una tutela che prescinda da caratteristiche formali, come quelle che distinguono subordinati, autonomi, collaboratori a progetto o quant’altro dall’evoluzione del lavoro scaturisce con il rischio di abbassare le garanzie dei lavoratori.
Discorso di particolare interesse, anche alla luce del dibattito politico attuale, riguarda. Poi, il diritto ad una “retribuzione proporzionata”.
L’articolo 36 primo comma della Carta recita così: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Ci troviamo di fronte alla sintesi di due principi: quello mercantile della proporzione e quello solidaristico della sufficienza, quest’ultimo colorato della socialità specifica del riferimento alla famiglia. Se lo riportiamo al contesto storico-politico durante il quale viene concepita la carta costituzionale, possiamo capire quale mirabile compromesso rappresenti questo testo: una sintesi, vorrei dire politicamente perfetta, tra le componenti dell’antifascismo e della Resistenza che concepirono la neonata Repubblica: l’ideale liberale del mercato, quello social-comunista della solidarietà, quest’ultima estesa dai cattolici alla famiglia.
Dunque, una traduzione ben lontana e lungimirante, civile e democratica da certe idee che si cerca di veicolare di questi tempi, come quella sul salario minimo che ammorba il dibattito politico odierno. Certo, c’è da ricordare che oggi, complice una evoluzione particolarmente penalizzante del mercato del lavoro e della legislazione in proposito, si vanno formando ampi strati di “lavoratori poveri”: cittadini pur occupati che non riescono a conseguire proprio quella che è la finalità indicata dal testo costituzionale: le risorse per una esistenza libera e dignitosa.
Ed ancora, non si può trascurare la questione legata al rapporto tra uomini e donne, tra lavoratori e lavoratrici
Il tema del lavoro femminile viene trattato nell’articolo 37, primo comma: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Un principio di parità stabilito dalla Costituzione che però ha dovuto attendere trent’anni prima di essere tradotto in una legge ordinaria (9 dicembre 1977 n. 903) e, nonostante un’abbondante legislazione e giurisprudenza prima della Comunità e poi dell’Unione Europea – che ha fatto della parità di trattamento uno dei suoi principi cardine – sappiamo che di fatto i salari femminili sono ancora mediamente assai inferiori a quelli maschili.
Eppure, con estrema chiarezza viene specificato che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini. E questo vale anche per le retribuzioni, ma dopo oltre 70 anni le statistiche ci dicono che la realtà è ancora lontana dai diritti sanciti costituzionalmente.
La lettura di questo articolo ci ricorda che l’attività lavorativa, pur essendo essenziale, non può porsi in contrasto con i diritti della famiglia (art. 29) e di conseguenza la maternità e l’infanzia devono essere tutelati, ma, dopo molti anni e ancora oggi, non sempre e non a tutte le donne viene assicurata in modo adeguato soprattutto a causa della carenza di strutture di supporto.
Ciò significa evidentemente che la strada per dare attuazione piena alla nostra Costituzione è ancora lunga.
Nel dibattito che animò l’assemblea costituente, significativo fu l’intervento di Giuseppe Dossetti, quando affermò che: «il diritto ad avere i mezzi per una esistenza libera e dignitosa non deriva dal semplice fatto di essere uomini, ma dall’adempimento di un lavoro, a meno che non si determinino quelle altre condizioni da cui derivi l’impossibilità di lavorare».
Da qui scaturisce l’Art. 38 che recita: Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera.
L’articolo 38 riconosce due diritti sociali importanti: all’assistenza sociale e alla previdenza sociale. Il diritto all’assistenza sociale è previsto per il cittadino che sia, per le ragioni più diverse, impossibilitato a procurarsi da vivere mediante il lavoro, pur tenendo presente che la Repubblica persegue ostinatamente, anche per gli “inabili”, lo scopo del reinserimento sociale e professionale (educazione e avviamento professionale), affinché possano esprimere una partecipazione piena alla vita sociale economica e politica.
La previdenza si occupa invece di garantire mezzi adeguati a quei lavoratori, siano essi cittadini o no, che incorrano nei rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa stessa.
Tra i principi di libertà, dobbiamo inserire certamente l’art. 39 che stabilisce che:
L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme stabilite dalla legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Attraverso questo articolo la Costituzione ha restituito ai lavoratori l’autonomia e il pluralismo delle organizzazioni sindacali, dopo l’oppressione fascista e il corporativismo coatto.
In pratica, la Repubblica sostiene e prende la parte del lavoro, accompagnando i lavoratori, anche attraverso il sindacato, a fare del lavoro stesso un’occasione di svolgimento della personalità, di partecipazione economica e di edificazione della Repubblica. E tuttavia, proprio perché formazione sociale, il sindacato deve incarnare i principi costituzionali di eguaglianza e partecipazione e cioè essere strutturato internamente in modo democratico. A questo doveva tendere una legge, prevista dall’art. 39, e mai attuata…
Intanto, sempre a proposito del valore che la libertà ha in sé nonché nella previsione della nostra Costituzione, non bisogna trascurare l’Art. 40 che, se da un lato sancisce il diritto di sciopero, dall’altro ricorda che si esercita ma nell’ambito delle leggi che lo regolano.
Dunque, la Costituzione prevede il diritto a scioperare, ma nel contempo precisa che l’esercizio di tale diritto si svolga entro alcuni limiti di legge, poiché con lo sciopero non possono essere violati altri diritti delle persone, costituzionalmente tutelati. È questo un aspetto in passato sufficientemente trascurato a dispetto del fatto di quanto sia evidente che vi sono servizi essenziali che non possono essere interrotti o che ci sono attività lavorative che possono essere sospese soltanto con un preavviso di tempo. Quante polemiche intorno a questo principio! polemiche speciose perché lo sciopero selvaggio è semplicemente incostituzionale, così come quelle proteste che puntano a bloccare strade, binari, svincoli autostradali e via elencando.
Insomma, la libertà, valore di straordinaria importanza che la nostra Costituzione mai perde di vista: è un bene supremo, non negoziabile, assoluto, ma a una condizione: “La mia libertà finisce laddove comincia la tua”.
Ma qui apriamo un altro discorso. Certamente importante, anzi importantissimo, per il quale evidentemente vi rimandiamo a qualche altra, prossima occasione ricordando che la Libertà è parte imprescindibile del nostro essere e di cui nessuna persona sulla terra deve fare a meno: lo diceva anche Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America scrivendo nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana:
“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”
Appunto!