Una civiltà non può sopravvivere senza punti di riferimento e, tra questi, la tutela giurisdizionale dei diritti è un principio essenziale
di Maurizio Bonanno
Il geografo Strabone, greco vissuto ai tempi dell’imperatore Augusto, descrive così la realtà geo-antropica del “cuore” della pianura padana prima della conquista da parte di Roma: “Anticamente, come ho detto, la regione intorno al Po era abitata in massima parte da Celti. Le stirpi celtiche più importanti erano quelle dei Boi e degli Insubri e inoltre dei Senoni … Milano era anticamente un misero villaggio (tutti infatti abitavano in villaggi), mentre oggi è una città importante al di là del Po, quasi ai piedi delle Alpi. Vicino ad essa sorge Verona, anch’essa una grande città. Più piccole sono invece Brescia, Mantova, Reggio e Como”. (Strabone, 5, 1, 6).
Perché ricordo questo passo di Strabone? Perché, mentre i Romani conquistavano e civilizzavano la Padania, più o meno contemporaneamente Cicerone così indottrinava: “…secondo il nostro diritto, nessuno può cambiare cittadinanza contro la sua volontà. Ma si può cambiarla, se si vuole, posto che si sia adottati dalla città dalla quale si desidera divenire cittadino. Però dal nostro diritto civile è vietato appartenere a due città: non si può restare cittadini di una città quando si è solennemente dichiarato di essere cittadini di un’altra. Nessuno tra noi può essere cittadino di più di una città, poiché la differenza delle città implica necessariamente la diversità delle leggi. Nessuno può rimanere cittadino di Roma contro la propria volontà. È questo il più fermo fondamento della nostra libertà: essere padroni di conservare i propri diritti o rinunciarvi” (Cicerone, Pro Balbo, 12-13)
A quel tempo, dunque, come ricordano gli storici (primo fra tutti Strabone, appunto), la “romanizzazione”, consisteva nella progressiva diffusione da parte di Roma della propria lingua, della propria religione, delle proprie leggi e dei propri mores nei territori sottomessi prima di annetterli formalmente ai domini romani; senza disdegnare anche di assorbire ciò che di buono la cultura dei popoli vinti o alleati poteva dare, in un’osmosi “globalizzante” che fu certo tra i punti di forza del governo romano del mondo.
Insomma, ai padani fu applicata una sorta di “ius scholae” che consentì loro di essere integrati e divenire progressivamente cives romani partendo innanzitutto da un’operazione di acculturazione!
Nel momento in cui irrompe – finalmente, verrebbe da dire! – nel nostro dibattito politico il tema della integrazione – opportuna e, a determinate condizioni, legittima – con la proposta giudiziosamente avanzata da Forza Italia, dello “ius scholae”, ho pensato fosse opportuna questa premessa, considerati quegli esponenti politici che già si sono messi di traverso all’idea di legare l’acquisizione della cittadinanza italiana al compimento di un intero ciclo di studi.
D’altronde, è giusto il caso di ricordare che in Italia il tema è stato al centro del dibattito politico già tra il 2017 e il 2018, ma poi nel 2022 il testo di legge finì su un binario morto alla Camera. Il riconoscimento della cittadinanza italiana, nella proposta originaria, era previsto per i minorenni stranieri nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni che abbiano risieduto legalmente e senza interruzioni e che abbiano frequentato almeno 5 anni di studio.
Discuterne oggi, riprendere l’iter parlamentare di una legge quanto mai necessaria non può essere derubricato ad una scrollata di spalle giustificata dal fatto che “non è nel programma della coalizione che è al governo”, né tantomeno lasciata in mano a parvenu della cultura: giuridica, politica e storica.
Perché noi siamo ciò che la nostra storia è. Siamo eredi – abitualmente indegni, di questi tempi! – di un’eredità di civiltà e di cultura che è alla basi del nostro “mondo occidentale”: evoluto, moderno, in continua evoluzione, ma sempre ancorato al nostro “glorioso” passato.
E, nell’affrontare questo importante quanto delicato argomento, dobbiamo ricordarci che siamo i depositari di quella cittadinanza romana che fu capace di adattarsi alle situazioni del momento senza essere esclusiva o totalitaria. Perché la cittadinanza romana è un istituto giuridico e non un principio etico che prende forma attraverso una lenta evoluzione storica condivisa, per esperienza vissuta, da un raggruppamento di interessi comuni da cui ha origine la nozione di cives romani riuniti in societas. Uomini liberi capaci di perseguire un’azione comune senza rinunciare ai diritti personali, alla loro lingua e ai loro dei.
La strada da perseguire, dunque, è già tracciata: dalla nostra storia, dal nostro sentirci (almeno a parole, ignorandone di fatto la portata), oltre che essere, eredi di una civiltà, di una cultura, in questo caso innanzitutto giuridica.
Non possiamo più ignorare le profonde trasformazioni intervenute nella società italiana e per questo abbiamo il dovere di aggiornare le norme in materia di cittadinanza secondo una prospettiva omnicomprensiva che ponga al centro la finalità dell’integrazione dei minori stranieri cresciuti in Italia e che abbiano studiato o che qui studino. Questo garantirà un percorso di prevenzione di marginalità e di esclusione sociale, che rappresentano il miglior terreno di coltura per fenomeni di grave insicurezza e terreno fertile per attività illegali e do sfruttamento da parte della criminalità organizzata, come l’esperienza maturata da altri Paesi europei ha tragicamente dimostrato in anni recenti.
Inoltre, non possiamo più trascurare che nel raffronto con i maggiori Paesi europei, l’Italia figura tra quelli più restrittivi quanto alla concessione della cittadinanza ai minori stranieri nati o cresciuti in Italia e che, a fronte di un approccio sulla materia da parte del legislatore italiano fin qui incentrato sulle questioni della sicurezza e dell’immigrazione, è opportuno che per l’acquisizione della cittadinanza ottenga maggiore centralità il ruolo della scuola come potente fattore di integrazione e, dunque, il nesso genuino con il nostro Paese fondato sulla condivisione del patrimonio culturale e linguistico italiano.
La concessione della cittadinanza – se deve avvenire, perché è giusto che avvenga – può compiersi, dunque, con un’operazione di integrazione attraverso lo studio e la conoscenza, che faccia capire cosa comporta essere cittadini italiani, ma senza che vi siano condizioni capestro e nel rispetto di quella complessità di idee, di principi e di credo religioso, che sono parte integrante di una società aperta e pluralista, sempre tenendo presente che è fondamentale la conoscenza ed il rispetto delle leggi dello Stato.
Una società culturalmente complessa, come sono quelle attuali compresa la nostra, mantiene la sua identità, anzi si rafforza, se unita da valori accomunanti, non assumendo posizioni discriminanti. Perché una civiltà non può sopravvivere senza punti di riferimento e, tra questi, la tutela giurisdizionale dei diritti è un principio essenziale.
Riflettano coloro che – per preconcetti e ignoranza – offuscano le proprie menti rintanandosi in presunte angosce di nessun valore.
È il momento di guardare in faccia la realtà con serietà e non solleticando i parossismi populistici che minano la nostra società. Proprio oggi sul Corriere della Sera, Aldo Grasso ammonisce: “Quello che spaventa sono la regressione del linguaggio, l’assuefazione a questo imbarbarimento e un nuovo contesto politico-sociale che indulge al disinganno”.