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La festa non festa del primo maggio del lavoro e della democrazia

La festa non festa del primo maggio del lavoro e della democrazia

da admin_slgnwf75
3 Maggio 2025
in opinioni
Tempo di lettura: 6 minuti
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La questione delle questioni riguarda la radicale trasformazione del lavoro. E, di conseguenza, le mansioni e i ruoli, gli stessi mestieri, con i quali si lavora

di Franco Cimino

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È tornato il 1° maggio, la festa-non festa che ogni anno riappare sul calendario civile delle celebrazioni più importanti. Dopo il 2 giugno e il 25 aprile, questa lo è certamente. È tornato, ma nessuno l’ha vista arrivare.

horus 1

Torna, sì, il famoso concertone, sempre meno interessante dal punto di vista artistico per l’assenza, sempre più numerosa, di artisti di calibro internazionale. È tornato nella stessa solita enorme piazza, che vedrà ancora una volta meno partecipazione di quelle degli anni passati.

Ci saranno, i giovani, quasi per intera la partecipazione di pubblico. Ma quanti di loro conoscono il vero significato del 1° maggio?

Dalle verifiche giovanili del 25 aprile, molto deboli sul piano della conoscenza e del valore di quella ricorrenza, é facile pensare che non sia migliore la percezione di questo giorno. Ma perché il 1° Maggio è festa-non festa, come quella della Liberazione?

Perché, come per il 25 aprile, prima della gioia, oggi, occorre rafforzare la coscienza democratica, indebolitasi nel corso di questi ultimi vent’anni. E porre al primo posto del nostro impegno politico la difesa della Libertà, diversamente e sottilmente minacciata dai nuovi poteri di stampo non più velatamente autoritario. Pertanto, il 1° Maggio è festa in quanto gioisce il Lavoro all’interno della Costituzione Italiana, che , vorrei ripeterlo per quanti l’hanno dimenticato o lo ignorano, è “repubblica Democratica Fondata sul Lavoro“.

Non è, però, festa, perché il lavoro oggi, nella nostra società cosiddetta liberale e avanzata, è proprio, il lavoro, il tema, la questione più delicata e complessa.

Torniamo a un vecchio principio. Dice così: “il lavoro nobilita l’uomo“. Si trova in questo principio uno dei più robusti motori che hanno promosso il Progresso nella Libertà. Per questo, la nostra Costituzione reca la parola affascinante, Lavoro. E non “lavoratori”, un‘altra bellissima parola, come volevano i comunisti e i socialisti dell’Assemblea Costituente. Ricordo a me stesso che la dura disputa con liberali e cattolici è stata superata dall’intelligente mediazione del giovane Aldo Moro. Che offrì quella parola nel suo più profondo significato etico e filosofico. Il Lavoro viene un attimo prima dei lavoratori, intesi quali anima e strumento del Lavoro. E quale valore fondante la dignità della persona. E la Libertà, che la pervade. E dalla quale discendono tutti i diritti-doveri che da quel principio scaturiscono.

Mi sembra chiaro questo concetto anche nel mio linguaggio inadeguato e nella mia cultura modesta. Ma credo che basti per affermare che oggi questo principio e questo valore siano fortemente compromessi dalle dinamiche in atto nella vita democratica. Di certo, è indebolito. In alcuni ambiti sociali, addirittura negato.

La situazione sociale è mutata rispetto ai decenni precedenti, nei quali la questione lavoro era rappresentata prevalentemente dalla mancanza di posti di lavoro. Sempre più disoccupati, specialmente al Sud. In particolare, nelle regioni ancora più povere del Sud più arretrato. Il fenomeno della disoccupazione riguardava prevalentemente i giovani. E le donne ancor di più. Oggi il problema non è il posto di lavoro, atteso che tutti i governi succedutisi nell’ultimo decennio propagandano l’aumento degli occupati. Addirittura, quest’ultimo vanta un milione di posti in più. Anche Berlusconi ne vantava altrettanto. All’anno, per intenderci. Sommato i quali, non dovrebbe esserci più neppure un disoccupato.

Il problema, però, oggi riguarda il lavoro in sé. La sua qualità. Gli ambienti fisici in cui viene svolto. Le regole tendenzialmente privatistiche e padronali, che lo rendono ovunque precario. Insicuro. Unitamente all’insicurezza che le cronache sempre più nere riempiono delle più tragiche morti. Quelle sul lavoro. Per nulla differenti alle morti a causa delle guerre.

Il lavoro odierno è fragile. Incerto. Pur nella finta regola dell’assunzione a tempo indeterminato. Sulla quale, come arma di ricatto, agisce il famigerato Jobs Act o come cavolaccio si dice!

Il Referendum di giugno farà, nonostante le tecniche di furbizia di scoraggiamento al voto, farà giustizia di buona parte di esso.

La questione delle questioni riguarda la radicale trasformazione del lavoro. E, di conseguenza, le mansioni e i ruoli, gli stessi mestieri, con i quali si lavora.

Stanno scomparendo, essendo già state ridotte di molto nella quantità, i cosiddetti lavoratori della vecchia cultura romantica, gli operai delle fabbriche, in particolare i metalmeccanici. Figure via via sostituite dai robot. E in futuro quasi cancellati dalla intelligenza artificiale. La vecchia figura del contadino, che lavora la terra, da noi mai pienamente valorizzata per via della sottovalutazione politica dell’agricoltura, è sostituita dalla più sfruttata manovalanza. Forza lavoro senza qualificazione. Né specializzazione. Nè competenze. Come se la terra fosse un oggetto di plastica e di pochissimo valore. Una misera manovalanza costretta a stare, con la schiena curva, dall’alba al tramonto sui campi dei padroni, portata lì da vecchi camion in cui, dai cattivi caporali, vengono stipati e condotti sui campi di sfruttamento. Marx la chiamerebbe sottoproletariato, se ci fosse ancora il proletariato.

La stessa cosa si verifica nei cantieri edili. In ambedue i settori la forza lavoro è rappresentata da quell’enorme esercito non più di riserva ma di arruolamento diretto e violento, rappresentato dagli immigrati. La maggior parte di loro senza titolo di residenza. O, addirittura, di documenti, persi nella traversata in mare. O sequestrati dai nuovi schiavisti. Questi lavoratori, braccia senza testa, gambe senza anima, sono privi di diritti.

Il sindacato, che ha perso sempre più il ruolo storico che ha avuto in Italia, non riesce a rappresentare quegli interessi. A difendere quelle persone. Neppure a mobilitarsi per garantire sicurezza e dignità.

Il lavoro è cambiato. La gran parte si svolge in quella specie di call center in cui giovani laureati, chiusi per l’intero giorno in stanzoni grigi e senza vento, intenti a “callcellare” per commesse e caccia di clienti, che di numero devono sempre crescere, pena il facile licenziamento. Sono i nuovi sottoproletari. Che non hanno futuro se non in quella selvaggia competizione per l’avanzamento di carriera, riservato soli a pochi di loro. Lavoratori non qualificabili e non giuridicamente pienamente definibili, rapidamente formati in corsi di formazione aziendali ancora più rapidi e brevi. Giovani laureati, alcuni anche plurilaterali, che stanno chiusi lì dentro per meno del misero stipendio di un docente.

Sono i nuovi poveri della povertà generale. I nuovi poveri della nuova economia. I figli disperati della modernità, padroneggiata dai pochi padroni della tecnologia sempre più avanzata, tecnologica.

La magnifica stagione dei diritti dei lavoratori, rafforzata dalle tante leggi prodotte sul terreno della Democrazia, oggi cancellate o modificate, non esiste più. Al suo posto un’autentica giungla in cui si afferma il più forte in danno dei deboli. Il più forte è chi detiene il lavoro e i suoi strumenti. E la capacità di ricatto nel poterlo concedere o impedirlo, scegliendo a chi concederlo e a chi negarlo o ritirarlo, si chiama ancora licenziamento. E senza garanzie. I più deboli, quanti sono costretti a svendere la propria forza e la propria dignità per procurarsi appena il necessario per la sopravvivenza propria e della propria famiglia.

Il nostro Paese si trova a un bivio. Se vuole essere protagonista davvero nella nuova Europa, che gli europei attendono da tempo, deve scegliere quale strada imboccare. Una porta alla società estremamente liberista, nella quale l’economia domini le dinamiche del potere e il profitto, quelle dell’economia, nella quale fermo resti il principio dell’accumulo indiscriminato e indifferente della ricchezza. L’altra conduce alla società disegnata dalla Costituzione più bella del mondo. Quella della Repubblica fondata sul Lavoro. Democratica, perché fondata sul lavoro. Il Lavoro, che crea ricchezza attraverso la creatività dell’uomo e impiega la Politica affinché il lavoro sia di tutti e per tutti. Dignitoso, perché si carica della dignità del lavoratore e la dignità della persona riconosce e valorizza. E la ricchezza distribuisce secondo capacità e bisogni equamente concepiti e applicati.

Il Lavoro, che è Libertà. Di fare. Di realizzare. Libertà di farsi nel Lavoro che libera.

Tags: 1 maggiodemocraziaeuropafestagiovanilavoropovertà

admin_slgnwf75

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